Nel 1974 il Parlamento approva la legge n. 195 che introduce il finanziamento pubblico ai partiti. Pochi colsero allora come oggi la natura incostituzionale e partitocratica della legge Piccoli che introduceva il finanziamento pubblico ai partiti. L’art. 3 prevedeva che il finanziamento andava ai gruppi parlamentari “per l’esercizio delle loro funzioni” e per “l’attività propedeutica dei relativi partiti” e obbligava il gruppo parlamentare a versare “una somma non inferiore al 95% del contributo riscosso” ai partiti; parallelamente, introduceva il finanziamento per l’attività “elettorale” dei partiti. Si configurava una evidente e palese violazione dell’art. 67 della Costituzione poiché il parlamentare è per Costituzione indipendente e senza vincolo di mandato. La legge 195/1974 instaura una commistione tra due identità giuridiche distinte: il Gruppo parlamentare, che è parte della struttura legislativa dello Stato e quindi certamente figura di diritto pubblico, e il Partito, che invece è regolato dal diritto privato e si configura come un’associazione di fatto. In forza della legge il gruppo parlamentare si ritrovava ad avere una posizione debitoria verso il partito. Inoltre, la legge finanziando i partiti già presenti in Parlamento introduceva un elemento di vantaggio rispetto ai nuovi soggetti politici, cristallizzando i rapporti di forza e le posizioni acquisite in chiara violazione dell’art. 49 della Costituzione, perché il diritto dei cittadini di associarsi in partiti si configura in un diritto di serie A per i cittadini che si associano a quelli già esistenti e in un diritto di serie B per coloro che si associano a partiti nuovi. Danno ulteriormente aggravato nel caso una nuova formazione non riuscisse a raggiungere il quorum per entrare in Parlamento: il finanziamento era riservato a chi raggiungeva almeno “un quoziente in una circoscrizione ed una cifra elettorale nazionale di almeno 300.000 voti di lista validi, ovvero una cifra nazionale non inferiore al 2 per cento dei voti validamente espressi”. Ovviamente, anche chi non raggiungeva il quorum aveva sostenuto delle spese; il finanziamento pubblico, lungi dal favorire la partecipazione dei cittadini alla politica, mirava a consolidare posizioni di potere cristallizzate in Parlamento. Continua a leggere
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Appropriazione indebita
I sostenitori del finanziamento pubblico ai partiti sostengono che senza il finanziamento solo i ricchi potrebbero fare politica e si rischierebbero fenomeni poco trasparenti di finanziamento della politica. Costoro sbagliano sul piano storico e logico, oltre a dimostrare di non avere onestà intellettuale (su quella morale non mi pronuncio).
Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto nel 1974 sulla scia di una serie di scandali (l’ultimo quello del 1973, il cosiddetto scandalo dei petroli) che evidenziarono modalità di finanziamento dei partiti attraverso collusione e corruzione con aziende monopoliste di Stato e gruppi economici. La tesi era che dotando i Partiti di fondi pubblici non ci sarebbe stata più la necessità di ricorrere a discutibili sistemi di finanziamento. I fenomeni corruttivi hanno in realtà caratterizzato tutto il periodo di vigenza del finanziamento pubblico sino all’esplosione di tangentopoli e all’abolizione del finanziamento con il referendum del 1993. Continua a leggere