IL NUOVO ITALICUM

Finalmente ci siamo. Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno raggiunto un accordo per la nuova legge elettorale che consentirà di rinnovare il Parlamento.

Come sapete, se andrà in porto la riforma costituzionale in discussione, il Senato non sarà più eletto dal popolo sovrano e non dovrà votare la fiducia al Governo.

L’obiettivo dichiarato è: avere un vincitore appena terminate le operazioni di voto e avere un Governo in grado di fare senza subire veti e ricatti.

Manca ancora qualche dettaglio, ma il più è definito.

Tipologia: legge proporzionale a ripartizione nazionale con premio per ottenere la maggioranza assoluta e soglie di accesso.

Premio: il partito che raggiunge il 40% dei voti validi avrà un premio che lo porterà alla maggioranza assoluta con 340 deputati (su 630). Se nessun partito raggiunge questa soglia, si va al ballottaggio tra i primi due classificati. Il calcolo è fatto su base nazionale.

Soglie di sbarramento: ancora qualche dubbio. Renzi le vorrebbe al 3%, Berlusconi al 6%. Vedremo.

Liste: i Partiti presenteranno i loro candidati in liste bloccate solo per i capilista; gli elettori potranno esprimere due preferenze tra i  candidati presenti in lista. Le preferenze dovranno essere assortite nel genere, pena nullità del voto.

Varietà di genere: ogni genere potrà contare sul minimo del 40% di capilista.

Collegi: saranno 100; è prevista la candidatura multipla ma in non più di dieci collegi.

Considerazioni

Ancora una volta avremo un parlamento costituito per la gran parte da nominati, vale a dire rappresentanti dei partiti, scelti esclusivamente dalle segreterie dei partiti nonostante la Corte Costituzionale abbia ribadito con la sentenza 1/2014 che  “le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee … devono essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati”. Continua a leggere

Da Piccoli a Letta: 40 anni di finanziamento pubblico ai partiti

prendi i soldiNel 1974 il Parlamento approva la legge n. 195 che introduce il finanziamento pubblico ai partiti. Pochi colsero allora come oggi la natura incostituzionale e partitocratica della legge Piccoli che introduceva il finanziamento pubblico ai partiti. L’art. 3 prevedeva che il finanziamento andava ai gruppi parlamentari “per l’esercizio delle loro funzioni” e per “l’attività propedeutica dei relativi partiti” e obbligava il gruppo parlamentare a versare “una somma non inferiore al 95% del contributo riscosso” ai partiti; parallelamente, introduceva il finanziamento per l’attività “elettorale” dei partiti. Si configurava una evidente e palese violazione dell’art. 67 della Costituzione poiché il parlamentare è per Costituzione indipendente e senza vincolo di mandato. La legge 195/1974 instaura una commistione tra due identità giuridiche distinte:  il Gruppo parlamentare, che è parte della struttura legislativa dello Stato e quindi certamente figura di diritto pubblico, e il Partito, che invece è regolato dal diritto privato e si configura come un’associazione di fatto. In forza della legge il gruppo parlamentare si ritrovava ad avere una posizione debitoria verso il partito. Inoltre, la legge finanziando i partiti già presenti in Parlamento introduceva un elemento di vantaggio rispetto ai nuovi soggetti politici, cristallizzando i rapporti di forza e le posizioni acquisite in chiara violazione dell’art. 49 della Costituzione, perché il diritto dei cittadini di associarsi in partiti si configura in un diritto di serie A per i cittadini che si associano a quelli già esistenti e in un diritto di serie B per coloro che si associano a partiti nuovi. Danno ulteriormente aggravato nel caso una nuova formazione non riuscisse a raggiungere il quorum per entrare in Parlamento: il finanziamento era riservato a chi raggiungeva almeno “un quoziente in una circoscrizione ed una cifra elettorale nazionale di almeno 300.000 voti di lista validi, ovvero una cifra nazionale non inferiore al 2 per cento dei voti validamente espressi”. Ovviamente, anche chi non raggiungeva il quorum aveva sostenuto delle spese; il finanziamento pubblico, lungi dal favorire la partecipazione dei cittadini alla politica, mirava a consolidare posizioni di potere cristallizzate in ParlamentoContinua a leggere

Il trionfo di Andreotti

giulio_andreottiAndreotti ha lasciato questa valle di lacrime; inevitabile parlarne. Meno necessario l’ardito parallelismo che qualcuno propone tra anti-andreottismo e anti-berlusconismo per sostenere la necessità di  pacificazione politica. Pacificazione che sarebbe impossibilitata dalla irragionevole sinistra che avrebbe sempre bisogno di demonizzare l’avversario. 

Cominciamo col dire che non c’è alcun bisogno di pacificazione.

Abbiamo in Italia il caso Berlusconi che è diventato problema dell’Italia poiché il suo partito, il PdL, coincide con lui e ne rappresenta gli interessi. In un sistema democratico, e persino in una dittatura, nessuno è indispensabile; ovunque un partito politico avrebbe difeso il proprio leader togliendolo dalla esposizione pubblica, dimostrando autonomia tra partito e posizione personale del leader. Ovunque, a condizione che esista un partito politico e non un sistema di apparato a sostegno di una persona. Ma se il leader è un perseguitato politico? Ragione in più per metterlo al riparo dai riflettori. Rispetto a Berlusconi, ai suoi guai giudiziari e alla supposta persecuzione torna utile l’improvvida affermazione di Andreotti riguardo a Ambrosoli; riguardo a Berlusconi si può ben dire “se l’è cercata”, con i suoi comportamenti borderline, il suo disprezzo per la magistratura, la perenne sfida a ogni regola del vivere civile… Continua a leggere

TV, stampa e Potere Politico

TV_BNIn Italia la TV nasce sotto il controllo del governo e vi rimane sino al 1975. Esisteva solo il monopolio di Stato. Dal ’75 il controllo sulla TV passa dal governo al parlamento. Il Tesoro (oggi il Ministero dell’Economia e delle Finanza) in qualità di azionista ha il suo peso. La riforma del ’75, voluta fortemente dal PCI, fu sbandierata come una vittoria del pluralismo. Nei fatti fu un perfezionamento della lottizzazione con l’allargamento del potere di controllo a un nuovo soggetto: il PCI che utilizzò quel potere non per scardinare la lottizzazione ma per entrare nel sistema dalla sala dei bottoni.

Il sistema rimase ingessato e tutti gli imprenditori che tentarono di scalfire quel monopolio televisivo fallirono (Agnelli, Rizzoli, Rusconi): non per incapacità, ma per compromesso politico. I loro interessi erano fortemente legati alla partitocrazia: preferirono quindi non entrare in rotta di collisione con il sistema politico incentrato sulla DC, che tentava di mantenere se stessa al potere, e sul PCI, che tentava di essere ammesso alla gestione del potere centrale in alleanza con la DC. In questo scenario, che Giorgio Galli definì “bipartitismo imperfetto”, s’inserirono Craxi e Berlusconi, che nel politico socialista trovò un referente autorevole.

Ha inizio una nuova stagione delle televisioni private (e per le radio private) ma anche una lunghissima e complessa vicenda giudiziaria che chiamò più volte la Corte Costituzionale a dirimere la matassa.

La Corte Costituzionale sancì il diritto di esistere della TV privata e poiché mancavano norme di riferimento e di regolamento della pluralità di mercato, la TV privata crebbe senza regole ma con un obiettivo preciso: arrivare a un peso di dimensioni pari a quelle della TV pubblica, intuizione o ambizione che mancò ai precedenti imprenditori della TV privata. Solo così, infatti, avrebbe potuto competere sul mercato pubblicitario basato sull’offerta a pacchetto proposta dalla SIPRA, concessionaria pubblicitaria della TV di Stato e della stampa di partito cui assicurava ricchi minimi garantiti  (in sostanza forme di finanziamento ai partiti). Continua a leggere

Cultura di governo e assenza di democrazia.

inciucio2Il problema dell’Italia repubblicana è da sempre la mancanza di democrazia e di alternativa alla cultura di governo un tempo incentrata sulla DC e da due decenni sul duopolio centrosinistra – centrodestra.

Chi un tempo rappresentava la maggior forza d’opposizione, il PCI,  rinunciò a svolgere questo ruolo cercando semplicemente di essere ammesso alla spartizione del potere. Questa stortura del nostro sistema politico ha consentito che la promettente democrazia repubblicana degenerasse ben presto in partitocrazia (ne parlava già all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso il pericoloso rivoluzionario Cesare Merzagora).

Se vogliamo trovare qualche esempio di cultura di governo alternativa alla DC e ai suoi mendicanti alleati dobbiamo volgere lo sguardo verso la casa radicale: unica presenza politica in Italia dal 1946 a oggi che ha dimostrato che è possibile vincere battaglie impensabili lavorando sulle “cose” e non sulle “formule. Alleanze per “fare” e non per “conquistare”. Continua a leggere

Appropriazione indebita

I sostenitori del finanziamento pubblico ai partiti sostengono che senza il finanziamento solo i ricchi potrebbero fare politica e si rischierebbero fenomeni poco trasparenti di finanziamento della politica. Costoro sbagliano sul piano storico e logico, oltre a dimostrare di non avere onestà intellettuale (su quella morale non mi pronuncio).

Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto nel 1974 sulla scia di una serie di scandali (l’ultimo quello del 1973, il cosiddetto scandalo dei petroli) che evidenziarono modalità di finanziamento dei partiti attraverso collusione e corruzione con aziende monopoliste di Stato e gruppi economici. La tesi era che dotando i Partiti di fondi  pubblici non ci sarebbe stata più la necessità di ricorrere a discutibili sistemi di finanziamento. I fenomeni corruttivi hanno in realtà caratterizzato tutto il periodo di vigenza del finanziamento pubblico sino all’esplosione di tangentopoli e all’abolizione del finanziamento con il referendum del 1993. Continua a leggere