Il quesito referendario del 4 dicembre (forse)

Il referendum di ottobre del 4 dicembre 2016 ci chiede un SI o un NO alla riforma costituzionale Renzi – Boschi esemplificata dai 5 punti indicati nel quesito che recita:

<<Approvate il testo della legge costituzionale concernentedisposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?>>

Il superamento del bicameralismo paritario

L’obiettivo non è raggiunto.

La riforma non conduce al superamento del bicameralismo paritario ma al suo ridimensionamento.

Il Senato non avrebbe più un rapporto fiduciario con il governo ma ciò non significa che scompare il bicameralismo paritario perché va analizzato cosa succede dell’altro aspetto del bicameralismo: la funzione legislativa.

Ebbene, diversi ambiti legislativi resterebbero BICAMERALI, vale a dire che le due camere avrebbero la stessa dignità e le leggi dovrebbero essere approvate da entrambe le camere.

Si tratta dei provvedimenti indicati al primo comma del nuovo art. 70: leggi costituzionali, leggi di attuazione della Costituzione, leggi elettorali, tutto ciò che riguarda i rapporti con l’UE e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni europee, tutto ciò che attiene funzioni, organizzazione e organi di governo di comuni e città metropolitane, compresa la definizione delle linee generali per la costituzione delle associazioni di comuni, passaggio fondamentale anche per il superamento effettivo delle province.

Quante sono le leggi che hanno implicazioni con le norme comunitarie? Tante, alla faccia di coloro che dicono che il residuo bicamerale è poca roba…

Resterebbe soggetta a bicameralismo paritario una parte qualificante dell’attività legislativa, da cui dipenderà la stessa attuazione della riforma costituzionale.

La prima affermazione del quesito (superamento del bicameralismo paritario) è FALSA: si confonde un traguardo con il percorso per raggiungere il traguardo, senza verificare che effettivamente il percorso conduca al traguardo.

La riforma genera un nuovo bicameralismo asimmetrico in cui si affidano importanti funzioni a persone con doppio incarico, con il rischio che facciano male entrambi. In più, si amplificano i rischi di inefficienza e instabilità perché in Senato avremmo con molta probabilità una maggioranza disomogenea con quella della Camera. Continua a leggere

Ceccanti e la rappresentazione grottesca della realtà

E’ deprimente che persone come il professor Ceccanti insistano a offrire una rappresentazione falsata della realtà e della storia. Lo spunto per questa riflessione è offerto dall’intervento di Ceccanti in cui indica le due scelte qualificanti della riforma costituzionale

Attribuire al bicameralismo perfetto “il rischio costante (dal ‘94 in 4 consultazioni elettorali su 6) di avere nei due rami del Parlamento maggioranze diverse” significa alterare capziosamente i fatti.

Questa circostanza, che non si è verificata nella misura indicata da Ceccanti, dipende da precise scelte dei legislatori responsabili della pessima legge nota come “Porcellum” con cui sono state effettuate 3 delle 6 elezioni ricordate da Ceccanti.

Le elezioni del 2006, 2008 e 2013 si sono svolte sotto la regia del Porcellum che è stato pensato per rendere più difficile la formazione di maggioranze omogenee introducendo un premio a livello regionale per il primo classificato.

Confondere un meccanismo elettorale con un tema istituzionale è una mistificazione.

Tutti sanno, compreso Ceccanti, che la Costituzione del 1947 presentava alcune differenziazioni tra Camera e Senato:

- Diverso corpo elettorale, tutti i maggiorenni per la Camera, over 25 per il Senato

- Durata differente della legislatura per ciascuna camera

- Ripartizione dei seggi su base nazionale per la Camera e regionale per il Senato

- Assegnazione minima di 6 senatori per ciascuna regione, con esclusione della Valle d’Aosta che ne ha uno, stabilendo una relazione discorsiva nel rapporto tra popolazione e rappresentanti al Senato, rispetto a quella vigente alla Camera.

I parlamentari non hanno mai rispettato la differente durata delle camere, sciogliendo sempre anticipatamente il Senato fino a quando nel 1963 approvarono una modifica costituzionale con la quale uniformarono la durata delle camere.

 

Permangono nel nostro sistema degli elementi (corpo elettorale differente, metodo diverso di assegnazione dei seggi e sproporzione dei seggi rispetto alla popolazione) che rendono più marcate le differenze tra le due camere in termini di assegnazione dei seggi.

La Basilicata, per esempio, con una popolazione che è il doppio del Molise ha 7 senatori contro i 2 del Molise; Basilicata e Umbria hanno gli stessi senatori di Friuli e Abruzzo, pur avendo una popolazione nettamente inferiore.

Ciò comporta, per fare un esempio, che un partito forte in Basilicata con pochi voti può conquistare più seggi al Senato di un altro partito che prende più voti in Liguria o in altre regioni.

In conclusione, i parlamentari hanno nel tempo eliminato un elemento di differenziazione elettorale tra Camera e Senato, ma hanno peggiorato gli altri aspetti addirittura prevedendo un premio di maggioranza assegnato su base regionale (premio censurato dalla sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale).

Gli studiosi, che attribuiscono tante responsabilità al bicameralismo paritario, fingono di ignorare questi fattori e omettono di dire che i cambiamenti di casacca potrebbero esserci anche in futuro con la nuova costituzione perché nulla cambia su questo fronte. Continua a leggere

Basta un NO

Le argomentazioni esposte dai firmatari del Manifesto del SI mi confortano nella mia ferma convinzione di votare NO.

Spiego perché rispondendo ai 7 punti (di cui riporto il testo) proposti “a titolo ricognitivo” dai firmatari e alle loro valutazioni conclusive. Vi invito a leggere il testo completo del Manifesto del SI

  1. “Viene superato l’anacronistico bicameralismo paritario” indifferenziato, con la previsione di un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo. Pregio principale della riforma, il nuovo Senato delinea un modello di rappresentanza al centro delle istituzioni locali. E’ l’unica ragione che oggi possa giustificare la presenza di due Camere. Ed è una soluzione coerente col ridisegno dei rapporti fra Stato-Regioni. Ne trarrà vantaggio sia il rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento, che rimane in capo alla sola Camera dei deputati, superando così i problemi derivanti da sistemi elettorali diversi, sia l’iter di approvazione delle leggi”.

Si passa da un bicameralismo paritario a un bicameralismo asimmetrico, mantenendo due camere con funzione legislativa, sebbene differenziata. Infatti, l’art. 71 comma primo prevede che ogni parlamentare è titolare dell’iniziativa legislativa. Il Senato può assumere qualsiasi autonoma iniziativa legislativa, ma solo se approverà un progetto con la maggioranza assoluta dei propri componenti impegnerà la Camera, che dovrà deliberare entro sei mesi (art. 70 nuovo testo costituzionale).

Molti provvedimenti restano BICAMERALI. Il Senato può modificare qualsiasi provvedimento approvato dalla Camera, la quale potrà respingere le modifiche, ma dovrà rimettere in discussione la legge e votare.

Non si supera il problema derivante da sistemi elettorali diversi perché il Senato sarà eletto con metodo proporzionale (art. 57) e potrebbe in Senato non esserci una maggioranza politica o averne una diversa da quella della Camera, per la quale non è costituzionalizzato il metodo elettorale.

Va inventato il modello di rappresentanza delle Istituzioni territoriali perché la Costituzione non solo non individua procedure e strumenti, ma delinea un sistema elettorale del Senato che ne farà in concreto la somma dei rapporti di forza esistenti nelle Regioni, senza alcun mandato politico, senza alcun programma… I senatori saranno portatori di interessi locali e particolari in una camera legislativa.

 

  1. “I procedimenti legislativi vengono articolati in due modelli principali, a seconda che si tratti di revisione costituzionale o di leggi di attuazione dei congegni di raccordo fra Stato e autonomie, dove Camera e Senato approvano i testi su basi paritarie, mentre si prevede in generale una prevalenza della Camera politica, permettendo al Senato la possibilità di richiamare tutte le leggi, impedendo eventuali colpi di mano della maggioranza, ma lasciando comunque alla Camera l’ultima parola. La questione della complicazione del procedimento legislativo non va sopravvalutata, poiché non appare diversa la situazione di tutti gli Stati composti: in ogni caso, e di nuovo in continuità con le esperienze comparate, la riforma prevede la prevalenza della Camera politica”.

I procedimenti legislativi BICAMERALI abbracciano vasti ambiti: leggi costituzionali, leggi di attuazione della Costituzione, leggi elettorali, tutto ciò che riguarda i rapporti con l’UE e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni europee, tutto ciò che attiene funzioni, organizzazione e organi di governo di comuni e città metropolitane, compresa la definizione delle linee generali per la costituzione delle associazioni di comuni, passaggio fondamentale anche per il superamento effettivo delle province.

Se al Senato non ci sarà una maggioranza omogenea con quella della Camera, potrebbe patirne la governabilità e potremmo avere una Camera bloccata da veti e ricatti.

La funzione di raccordo legislativo tra le Regioni e tra le Regioni e lo Stato sarà tutta da inventare (con LEGGI BICAMERALI) perché la Costituzione non individua strumenti e procedure. Singolare che la modifica dell’art. 121 privi le Regioni del potere di presentare proposte di legge in Senato.

 

  1. “La riforma del Titolo V della Costituzione ridefinisce i rapporti fra lo Stato e Regioni nel solco della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001, con conseguente incremento delle materie di competenza statale. Nello stesso tempo la riforma tipizza materie proprie di competenza regionale, cui corrispondono in gran parte leggi statali limitate alla fissazione di “disposizioni generali e comuni”. Per la prima volta, non si assiste ad un aumento dei poteri del sistema regionale e locale, bensì ad una loro razionalizzazione e riconduzione a dinamiche di governo complessive del paese. La soppressione della legislazione concorrente serve razionalizzare in un’ottica duale il riparto delle materie e comporta di per sé una riallocazione naturale allo stato o alle regioni della competenza a disciplinare, rispettivamente, i principi fondamentali e le norme di dettaglio che già spettava ad ognuno di essi. Inoltre, l’impianto autonomistico delineato dall’art. 5 della Costituzione non viene messo in discussione perché la riforma pone le premesse per un regionalismo collaborativo più maturo, di cui la Camera delle autonomie territoriali costituirà un tassello essenziale. Con la riforma, peraltro, non viene meno il principio di sussidiarietà e dunque la dimensione di una amministrazione più vicina al cittadino rimarrà uno dei principi ispiratori della Costituzione”.

La riforma del riformato Titolo V sarà fonte di nuovi contenziosi perché a fronte della eliminazione delle materie concorrenti c’è la dilatazione delle materie trasversali, vale a dire quelle che maggiormente hanno generato i conflitti negli ultimi anni. Le materie trasversali sono quelle in cui lo Stato enuncia una finalità, “le disposizioni generali e comuni”, “le disposizioni di principio”, le “norme tese (…) ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale”… Queste materie non circoscrivono un ambito della legislazione, ma si intrecciano con competenze affidate alla potestà legislativa delle regioni. Proprio perché “trasversali”, si muovono e agiscono orizzontalmente nell’ordinamento, coinvolgendo interessi e ambiti molto diversi tra loro.

La nuova riforma non individua come stabilire i confini tra competenze statali e regionali e non realizza alcun centro istituzionale in cui i conflitti possano trovare la soluzione. Il Senato non potrà essere la Camera delle Istituzioni territoriali, sia per la modalità di elezione dei senatori (diversamente a quanto avviene in Germania, i nostri senatori non avranno un mandato politico, non saranno delegati dal governo regionale, non avranno vincolo di mandato), sia per la varietà e vastità delle funzioni che non costituiscono un raccordo con le competenze statali trasversali.

La nuova “clausola di supremazia” (art 117: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”), poiché rende illimitata la potestà dello Stato, comprime ulteriormente la potestà legislativa delle Regioni e sarà causa di conflittualità. La Clausola di supremazia è in grado di scardinare l’impianto autonomistico affermato nella prima parte della Costituzione. Interesse nazionale, unità economica, unità giuridica… non sono contenitori definiti; chi deciderà cosa sta dentro questi contenitori?

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Il Senato delle Istituzioni territoriali

Se la riforma costituzionale sarà approvata con referendum, il Senato non dovrà più dare la fiducia al Governo, sarà formato da un sindaco per regione e un numero di consiglieri rapportato al peso demografico di ciascuna regione. Sindaci e Consiglieri saranno scelti da ciascun Consiglio regionale; a questi si sommeranno cinque senatori scelti dal Presidente della Repubblica tra i “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, per un totale di 100 senatori.

Il Senato non rappresenterà più la Nazione, privilegio che spetterà solo alla Camera dei deputati, ma sarà rappresentativo delle Istituzioni Territoriali (art 57 della nuova Cost).

Poiché ciascun Consiglio sceglierà con metodo proporzionale chi inviare al Senato, non si sa in base a quali previsioni e strumenti il Senato rappresenterà le Istituzioni territoriali. Al massimo i senatori rappresenteranno i partiti che li hanno espressi; infatti, non rappresentano i Governi regionali, come avviene in Germania, e non hanno vincolo di mandato.

La funzione del nuovo Senato è una vuota enunciazione.

Poiché si potrà formare in Senato una maggioranza di segno opposto a quella della Camera e, in ogni caso, a ogni senatore è riconosciuta la funzione legislativa (art 71 nuova Cost, nel 1° comma identico alla vecchia), è forte il rischio che si generi uno stato di perenne conflitto con l’altra camera.

Questi rischi sono concreti e riconosciuti persino da tanti sostenitori della Riforma.

Posso convenire, con i sostenitori della Riforma, che la causa di questo compromesso sia da ricercare nel fatto che nessun partito sostenne la soluzione alternativa proposta da Giorgio Tonini (PD), consistente nel replicare il modello tedesco, con un Senato composto dai Presidenti delle Giunte regionali, ma ciò non consente di concludere che poiché su questa formula non c’era accordo, il miglior compromesso fosse ripiegare sulla soluzione descritta, quella approvata, appunto.

Detta così, sembra che non ci fosse altra soluzione, invece il problema nasce da una camicia di forza indossata sin dall’inizio dell’era Renzi per obbedienza a un patto privato tra due segretari di partito. Patto che ha imposto il Senato con elezione indiretta, insieme ad altri punti.

Si poteva prevedere un Senato eletto dai cittadini per dare vita a una assemblea in grado di elaborare un “indirizzo politico repubblicano”, pur rappresentando le Istituzioni territoriali, e quindi con la funzione di individuare e stabilire i confini tra competenze statali e regionali, realizzando un centro istituzionale in cui i conflitti tra Stato e Enti locali potessero trovare la soluzione.

Il Senato così sarebbe stato avviato verso una nuova cultura politica e istituzionale in grado di affrontare e risolvere il contenzioso che caratterizza e caratterizzerà i rapporti tra Stato e Enti locali.

Non si tratta di pensare a soluzioni fantasiose, ma di attenzione istituzionale.

La Corte Costituzionale, più volte intervenuta nel contenzioso Stato-Regioni, con la sentenza n. 6/2004 ha indicato che la “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi ha impedito che si realizzasse il principio autonomistico della riforma del Titolo V del 2001. Ciò che è mancato sono sedi istituzionali, strumenti e procedure che garantissero il coinvolgimento delle autonomie nel circuito decisionale della legislazione di livello nazionale. Quale occasione migliore della riforma del Senato per renderlo rappresentativo delle Istituzioni territoriali e in grado di fungere da raccordo tra le Regioni e tra lo Stato e le Regioni?

Allora, la scelta non era tra “mantenere l’attuale assetto che esclude la voce delle Regioni dal processo di formazione delle leggi dello Stato” o “un compromesso appoggiato da un ampio arco di partiti che conduce a questo risultato”… perché il risultato è tutto da inventare e non è stato creato alcun presupposto per crearlo. E’ vero che per giungere a questo risultato occorre che maturi una cultura politica condivisa, ma è ancor più vero che perché maturi occorre favorirla. E scegliere tra i gruppi consiliari qualche consigliere da mandare in Senato non è certo il modo migliore per favorire questa nuova cultura.

Se invece l’obiettivo era il risparmio di 315 stipendi, allora bastava dimezzare il numero dei Deputati e dei Senatori: risultato maggiore con molta semplicità e senza creare ulteriore confusione e inefficienza.

Sembra ormai la Repubblica dei costituzionalisti della banana con scontrino.

Le Regioni sono da molti anni al centro di tutto il sistema di corruzione e malaffare che infesta l’Italia. Però, senza attuare alcuna riforma dei Partiti, si decide di affidare alla più discreditata categoria di politici il compito di formare il Senato della Repubblica. Un bel regalo alla partitocrazia e ai comitati d’affari che inquinano le Istituzioni. Il rischio maggiore è avere un Senato dei Consigliori.

Renzi lancia i Comitati per il SI

NORenzi lancia i Comitati per il SI al referendum confermativo sulla Riforma Costituzionale. Ovviamente, la cosa non sorprende nessuno e saremo felici di confrontarci sui contenuti e non sul suo destino politico o su menzogne.

I sostenitori del SI hanno facili argomenti persuasivi: meno parlamentari, meno spese per il parlamento, più efficienza istituzionale, più governabilità.

La riforma va letta con la legge elettorale, ma tenendo ben distinte le due cose.

Due parole sul metodo con cui si è arrivati a questa riforma, prima di entrare nel merito.

Inaccettabile che un parlamento, nato coartando (il termine è della Corte Costituzionale sentenza 1/2014) la volontà popolare nel legittimo e fondamentale diritto di scegliere i rappresentanti parlamentari, alterato nella consistenza dei gruppi parlamentari da premi incostituzionali, si arroghi il diritto di riformare la Costituzione.

Governo e Parlamento stanno trasformando l’assetto istituzionale della Repubblica, senza averne il mandato politico e utilizzando in modo improprio gli strumenti previsti dalla Costituzione, l’art. 138.

Revisione della Costituzione non significa trasformazione, significa intervento manutentivo. Un conto è rifarsi il seno altra cosa è cambiare sesso.

Governo e Parlamento stanno cambiando sesso alla nostra Repubblica. Continua a leggere