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Il pluralismo televisivo

TV_colorNel 1990 il Parlamento con la legge Mammì avrebbe dovuto risolvere il problema esploso con la nascita delle televisioni private, adempiere le sentenze della Corte Costituzionale che ne sancivano la legittimità, riconsiderare il controllo parlamentare sul servizio pubblico, procedere al riordino delle frequenze. Non raggiunse nessuno di questi obiettivi poiché quella legge (la 223 del 6 agosto 1990) si limitò a fotografare l’esistente: il passaggio dal monopolio Rai al duopolio Rai-Mediaset.

Nel 1994 interviene la Corte Costituzionale che con sentenza n. 420 censura la legge Mammì affermando che riconoscere a un solo soggetto la possibilità di gestire 3 reti private sulle 9 allora previste lede i principi costituzionali sull’informazione e il pluralismo.

Tale sentenza arriva dopo la 826 del 1988 nella quale la Suprema Corte testualmente scriveMa a parte la diversità dei ruoli del servizio pubblico radiotelevisivo e dell’emittenza privata, il pluralismo in sede nazionale non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato che sia rappresentato da un soggetto unico o che comunque detenga una posizione dominante nel settore privato”. Questa sentenza del 1988 oltre a bocciare il duopolio indica la strada che il legislatore dovrà seguire per risolvere definitivamente la questione evitando il formarsi di concentrazioni monopolistiche. Scrive infatti la Corte, riprendendo quanto già affermato con la sentenza n. 148 del 1981: Tutte le argomentazioni sopra svolte rendono evidente la necessità di una disciplina definitiva della materia, che si sottragga a tali censure e appresti quel “sistema di garanzie efficace al fine di ostacolare in modo effettivo il realizzarsi di concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche non solo nell’ambito delle connessioni fra le varie emittenti, ma anche in quello dei collegamenti tra le imprese operanti nei vari settori dell’informazione, incluse quelle pubblicitarie (sent. n. 148 del 1981)”.

Nel 1997 il Parlamento approva la legge n. 249 (la Legge Maccanico) che ancora una volta disattende le indicazioni della Suprema Corte e istituendo l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni affida a questa Autorità il compito di stabilire tempi e modi per superare il periodo transitorio che la legge Maccanico intanto istituisce. Questa legge prevede che una rete Mediaset (Rete4) migri sul satellite e una rete pubblica (Rai3) sia esclusa dalla raccolta pubblicitaria, ma il tutto dopo in imprecisato periodo transitorio durante il quale dovranno essere raggiunti determinati obiettivi di sviluppo delle nuove tecnologie di trasmissione. Ecco offerto sul piatto d’argento lo strumento per “permanentizzare” la transitorietà. Della pubblicità su Rai3 nessuno parlò più negli anni successivi sebbene la sentenza 466 del 2002 riconoscesse il collegamento tra le due questioni.

Non è necessario essere dei principi del foro per comprendere che legiferare prevedendo un regime transitorio, senza indicarne la durata, e demandando a una istituenda Autorità il compito di regolare la fine della transitorietà (legando questo evento al raggiungimento di determinati obiettivi di sviluppo nelle comunicazioni televisive alternative al tradizionale analogico) testimonia inequivocabilmente o l’incapacità di legiferare o la volontà politica di lasciare sine die aperta la questione.

Di proroga in proroga, diversi provvedimenti legislativi intervengono sulla materia consentendo di violare il termine del 31 dicembre 2003 fissato dall’Autorità competente e che la sentenza 466/2002 ritenne non superabile. Ma non si tratta di un termine perentorio; ne avrebbe la facoltà la Corte Costituzionale? Ad aver aperto la strada della transitorietà vaga e della puntuale inosservanza delle tante sentenze della Suprema Corte sono stati i governi di centrosinistra della legislatura 1996-2001.

La questione delle reti analogiche s’intreccia con lo sviluppo delle nuove tecnologie e segnatamente con il digitale terrestre. Così, la legge 66/2001(conversione del dl n 5 del 23 gennaio 2001) sposta il termine per il passaggio al digitale terrestre al 2006; la legge 51/2006 (conversione del dl n 273 del 30 dicembre 2005) sposta il termine al 2008; la legge 222/2007 (conversione del dl n 159 del primo ottobre 2007) sposta il termine al 2012. Ovviamente, il nobile motivo di tute queste proroghe è la definitiva affermazione del digitale terrestre.

Su questa strada si è inserita la Legge Gasparri del 2004, sulla quale l’UE si espresse tempestivamente, come anche la nuova maggioranza di centrosinistra, insediatasi nel 2006, che dichiarò la volontà politica di modificarla. Con Gentiloni si riaffermò la necessità di attendere l’affermazione del digitale terrestre per giustificare il proseguimento del regime transitorio.

In definitiva, sulla TV da sempre il potere politico esercita il proprio controllo e quando il controllo sfugge a una parte dell’oligarchia allora la TV diviene merce di scambio politico. Alla faccia della Costituzione, della Corte Costituzionale, di democrazia, legalità, pluralismo… tutte cosucce sulle quali i due blocchi conservatori alternatisi al governo dal 1994 a oggi sono passati sopra come dei caterpillar.

Da questa breve storia emerge un centrosinistra che appare in tutta la sua evidenza come l’altra faccia del berlusconismo. La finta opposizione del centrosinistra ha risolto la dialettica parlamentare in una lunghissima ed estenuante partita al gioco dell’oca.

One thought on “Il pluralismo televisivo

  1. Pingback: Perché la sinistra perde | macosamidicimai

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