In Italia la TV nasce sotto il controllo del governo e vi rimane sino al 1975. Esisteva solo il monopolio di Stato. Dal ’75 il controllo sulla TV passa dal governo al parlamento. Il Tesoro (oggi il Ministero dell’Economia e delle Finanza) in qualità di azionista ha il suo peso. La riforma del ’75, voluta fortemente dal PCI, fu sbandierata come una vittoria del pluralismo. Nei fatti fu un perfezionamento della lottizzazione con l’allargamento del potere di controllo a un nuovo soggetto: il PCI che utilizzò quel potere non per scardinare la lottizzazione ma per entrare nel sistema dalla sala dei bottoni.
Il sistema rimase ingessato e tutti gli imprenditori che tentarono di scalfire quel monopolio televisivo fallirono (Agnelli, Rizzoli, Rusconi): non per incapacità, ma per compromesso politico. I loro interessi erano fortemente legati alla partitocrazia: preferirono quindi non entrare in rotta di collisione con il sistema politico incentrato sulla DC, che tentava di mantenere se stessa al potere, e sul PCI, che tentava di essere ammesso alla gestione del potere centrale in alleanza con la DC. In questo scenario, che Giorgio Galli definì “bipartitismo imperfetto”, s’inserirono Craxi e Berlusconi, che nel politico socialista trovò un referente autorevole.
Ha inizio una nuova stagione delle televisioni private (e per le radio private) ma anche una lunghissima e complessa vicenda giudiziaria che chiamò più volte la Corte Costituzionale a dirimere la matassa.
La Corte Costituzionale sancì il diritto di esistere della TV privata e poiché mancavano norme di riferimento e di regolamento della pluralità di mercato, la TV privata crebbe senza regole ma con un obiettivo preciso: arrivare a un peso di dimensioni pari a quelle della TV pubblica, intuizione o ambizione che mancò ai precedenti imprenditori della TV privata. Solo così, infatti, avrebbe potuto competere sul mercato pubblicitario basato sull’offerta a pacchetto proposta dalla SIPRA, concessionaria pubblicitaria della TV di Stato e della stampa di partito cui assicurava ricchi minimi garantiti (in sostanza forme di finanziamento ai partiti).
Nel 1978 la Sipra garantiva 1350 milioni a l’Avvenire, mentre la raccolta pubblicitaria reale si fermava a 712 milioni; 500 milioni al Lavoro di Genova, che ne incassava per pubblicità meno di 200; 650 milioni a L’ora di Palermo che ne incassava 300; 4 miliardi a Paese Sera contro un miliardo e 764 milioni; 3500 milioni ai supplementi illustrati e ad altri quotidiani Rizzoli contro 1995. Tale consistente differenza fra denaro erogato e quello effettivamente incassato dalla Concessionaria esiste a proposito di tutti i contratti Sipra stipulati con le testate più diverse: da quotidiani come L’occhio (3500 milioni nel ’79) al Giornale di Indro Montanelli (6800 milioni), da testate come Il manifesto (120 milioni garantiti, mentre la raccolta pubblicitaria si fermava a non più di 60), al Borghese di Democrazia nazionale (300 milioni), dal mensile per la donna Cosmopolitan (100 milioni) ai periodici della Cgil-Cisl-Uil. Nel cartello delle testate gestite dalla Sipra c’erano anche gli organi ufficiali di partito: Il popolo della Dc (550 milioni l’anno), L’Unità e Rinascita (200 milioni) del Pci, l’Avanti! e Mondoperaio (40 milioni) del Psi, l’Umanità (230 milioni per duemila copie quotidiane) e Ragionamenti (40 milioni) del Pli.
La Sipra, presieduta dal comunista Vito Damico, con vicepresidente il socialista Gennaro Acquaviva, e amministratore delegato e direttore generale il democristiano Gianni Pasquarelli, assicurava ai partiti, attraverso i minimi garantiti, introiti superiori rispetto a quanto incassava dalla raccolta pubblicitaria. La Sipra era società dell’IRI, quindi pubblica.
E’ in questo mercato distorto, e certamente non libero, che nel 1980 nasce Publitalia, società per la raccolta pubblicitaria del gruppo Fininvest.
Al termine della vicenda giudiziaria intorno al sistema televisivo, giunge nel 1990 la legge Mammì, che si limita a fotografare il passaggio dal monopolio al duopolio, poi la legge Maccanico del 1997 che pone alle concessionarie un tetto del 20% sulle reti pianificate e prevede un periodo transitorio per chi supera questo limite. Una nuova sentenza della Corte Costituzionale del 2002 condanna la mancata fissazione di durata del periodo transitorio che, una volta fissato, continuerà a essere prorogato. Poi arriveranno i provvedimenti di Gasparri e Gentiloni.
Le sentenze della Corte Costituzionale non sono state onorate dal potere legislativo. La stessa Corte afferma in una sua memorabile sentenza che la necessità di mantenere pubblica la Rai risiede nel fatto che il duopolio non è garanzia di pluralità nel sistema informativo.
Le vicende degli anni novanta s’intrecciano con tangentopoli e con l’inizio dell’era berlusconiana.
Perché Berlusconi entra in politica?
Craxi, referente politico di Berlusconi, era stato disarcionato; su Berlusconi incombevano processi e rischi imprenditoriali rilevanti. Il sistema politico, in spregio della Costituzione e delle sentenze della Suprema Corte, aveva voluto mantenere saldamente il controllo sulla TV pubblica e riteneva di poter scendere a patti con l’imprenditore Berlusconi e così assicurarsi il controllo anche della TV privata.
Berlusconi non si fida e, novità in Italia, preferisce tutelare in proprio i suoi interessi invece di affidarsi a nuovi referenti politici.
Inizia il berlusconismo e l’antiberlusconismo, ma la vera posta in gioco è il controllo del potere politico, finanziario e informativo.
Berlusconi e il suo potere televisivo sono il prodotto del distorto sistema politico e informativo italiano: non la causa dei mali italiani ma l’effetto. I responsabili di questa distorsione sono i partiti politici dell’arco costituzionale: dal PLI al PCI.
Combattere il sistema berlusconiano è impossibile se non si riconoscono i protagonisti del berlusconismo che si regge su due facce della stessa medaglia: il berlusconismo berlusconiano e l’antiberlusconismo berlusconiano. Berlusconi rappresenta un elemento di disturbo per la partitocrazia, sopravvissuta a tangentopoli, che riteneva di avere il paese in saccoccia.
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