Da quando la Corte Costituzionale con la sentenza n. 35/2017 si è espressa al riguardo di alcuni ricorsi presentati sulla legge elettorale nota come Italicum si leggono e si sentono commenti che ondeggiano dai toni trionfalistici – di chi è stato sostenitore dell’Italicum – allo sconforto tra chi ha sempre avversato questa legge elettorale.
Entrambi gli atteggiamenti denotano scarsa comprensione del ruolo della Corte Costituzionale. Scarsa comprensione dovuta a disonestà intellettuale – quando i commenti provengono da navigati politici e giornalisti e persino da docenti universitari – e a ignoranza, quando a commentare è la vittima inconsapevole della disinformazione di massa, vale a dire il comune cittadino.
Semplificando, possiamo riassumere l’atteggiamento più diffuso tra i trionfalisti in una lettura della sentenza della Corte come approvazione del premio di maggioranza e del capolista bloccato; mentre tra chi esprime sconforto c’è la convinzione che quella della Corte sia stata una sentenza politica, nel senso deleterio del termine.
Appare necessario evidenziare che la Corte Costituzionale non risponde mai a una domanda generica del tipo “è conforme alla Costituzione la previsione del premio di maggioranza?” ma risponde alle argomentazioni illustrate dai ricorrenti per sostenere l’incostituzionalità di una norma; per essere ancora più precisi risponde alla ordinanza di un Tribunale che argomenta sul perché ritiene non manifestamente infondati i motivi di incostituzionalità presentati dal ricorrente. Non tutte le argomentazioni sollevate dai ricorrenti arrivano dunque alla Corte Costituzionale e ciò che arriva è filtrato da un Tribunale.
Quando la Corte Costituzionale respinge un ricorso su un aspetto specifico di una legge possiamo con certezza affermare che la Corte non ritiene valide le argomentazioni sollevate dal Tribunale sulla base del ricorso di un ricorrente ma non si può affermare che quella norma sia conforme ai principi della Costituzione. Un nuovo ricorso, meglio argomentato, potrebbe ribaltare il responso perché non è mai la norma a essere promossa ma è l’argomentazione contro una norma a essere respinta.
In altre parole, le argomentazioni presentate non sono state ritenute dalla Corte valide per dimostrare l’incostituzionalità della norma.
Entriamo nel dettaglio e cominciamo dalla questione più spinosa: il premio di maggioranza.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2014 relativa al cosiddetto Porcellum aveva censurato il premio per la Camera e quello per il Senato sulla base di due argomentazioni ben precise: il difetto di proporzionalità e l’irragionevolezza delle norme elettorali.
Infatti, mancava un tetto minimo di voti da raggiungere per aggiudicarsi il premio e quindi la legge elettorale produceva una compressione illimitata della rappresentatività “per perseguire un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese”.
Passando dal premio alla Camera a quello per il Senato, i giudici osservarono che non solo la disciplina esaminata non superava il test di proporzionalità ma era evidente “l’inidoneità della stessa (disciplina) al raggiungimento dell’obiettivo perseguito” poiché “produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea”.
Queste considerazioni sono perfettamente applicabili anche all’Italicum: bastava utilizzare questo argomento per far decadere il premio previsto alla Camera ma non al Senato.
A cosa serve alterare la rappresentatività alla Camera in modo anche significativo, stante il modello proporzionale sottostante al sistema elettorale, se tutto ciò non consente di raggiungere l’obiettivo della stabilità di governo dal momento che al Senato il premio non è previsto?
Immaginate un partito che alla Camera prende il 40%+1 dei voti validi e un altro partito che invece si ferma al 40%; il primo avrebbe 340 deputati su 618 e il secondo si fermerebbe a 190 circa per l’effetto distorsivo del premio, ma al Senato pur in presenza della stessa distribuzione dei voti il partito che può contare sulla maggioranza assoluta alla Camera non avrebbe la maggioranza al Senato.
Il premio è inidoneo a garantire il risultato della stabilità di governo, in nome della quale è stato compiuto il sacrificio di altri interessi e valori costituzionalmente protetti, per riprendere le parole della Corte (sentenza n. 1/2014).
La censura del premio previsto dall’Italicum era già scritta … se solo fosse stato utilizzato questo argomento. Ma non è successo e le norme per Camera e Senato in riferimento alla governabilità sono state contestate solo assumendo l’argomento che sarebbe pregiudicata la governabilità per via delle diverse soglie di sbarramento previste per la Camera e per il Senato.
A tal proposito la Corte nella sentenza n. 35/2017 scrive “così formulata la questione è inammissibile, per insufficiente motivazione”.
E aggiunge “(Il rimettente) non illustra, tuttavia, le ragioni per cui sarebbero le diverse soglie di sbarramento, e non altre e assi più rilevanti, differenze riscontrabili tra i due sistemi elettorali (ad esempio, un premio di maggioranza previsto solo dalla disciplina elettorale per la Camera), ad impedire, in tesi, la formazione di maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento”.
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