Se gli storici perdono la memoria, e con essa anche la cultura della memoria, allora probabilmente è la storia che perde la propria funzione cessando ogni ragione di interesse come oggetto di studio e di riflessione. Cos’è infatti la storia senza memoria?
Sempre più spesso succede di leggere interventi di storici, politologi, commentatori politici… che propongono riflessioni e analisi storiche di eventi del tempo andato, ricostruzioni del decorso storico di determinati problemi o dell’evoluzione di un determinato tema ancora presente nel dibattito politico e culturale.
Succede in questi mesi, in cui si dibatte di riforma del Senato e di bicameralismo, che in tanti propongano ricostruzioni storiche sul tema, partendo proprio dal ricco dibattito sviluppatosi in Assemblea Costituente.
In effetti, in Costituente furono tanti i progetti che proponevano una differenziazione dei poteri tra le due Camere e diversa fonte elettiva. Si discusse persino di farne la Camera del lavoro e delle professioni. Di tutta questa ricchezza rimase solo la differenza di corpo elettorale, la diversa durata della legislatura tra Camera e Senato, la diversa ripartizione dei seggi (su base regionale per il Senato e su base nazionale per la Camera) e la previsione dei senatori a vita.
D’altra parte, anche i meno accorti, se solo leggessero la Costituzione, coglierebbero senza difficoltà il travaglio che visse l’Assemblea Costituente nel configurare il sistema bicamerale e la funzione del Senato. Di ciò c’è traccia chiara e indelebile nella III Disposizione Transitoria che per comodità dei lettori riporto:
“Per la prima composizione del Senato della Repubblica sono nominati senatori, con decreto del Presidente della Repubblica, i deputati dell’Assemblea Costituente che posseggono i requisiti di legge per essere senatori e che:
sono stati presidenti del Consiglio dei Ministri o di Assemblee legislative;
hanno fatto parte del disciolto Senato;
hanno avuto almeno tre elezioni, compresa quella all’Assemblea Costituente;
sono stati dichiarati decaduti nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926;
hanno scontato la pena della reclusione non inferiore a cinque anni, in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato.
Sono nominati altresì senatori, con decreto del Presidente della Repubblica, i membri del disciolto Senato che hanno fatto parte della Consulta Nazionale.
Al diritto di essere nominati senatori si può rinunciare prima della firma del decreto di nomina. L’accettazione della candidatura alle elezioni politiche implica rinuncia al diritto di nomina a senatore.”
Quindi, il primo Senato della Repubblica nasce con modalità e caratteri tipici che sottolineano la continuità dello Stato, pur nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, ma la discontinuità con lo Stato “fascista”.
L’8 ottobre 1947 Nitti tuonò “Non c’è nessun Senato che possa essere sciolto. Questa non è materia di discussione: la Camera si scioglie, il Senato non si scioglie”. Era solo una posizione tra tante. Una durata più lunga rispetto a quella della Camera, una durata uguale, una durata uguale o diversa e con rinnovamento di un terzo o della metà dei senatori a metà legislatura o ogni due anni, stessi poteri della Camera o diversi… Alla fine fu approvata la durata di sei anni per il Senato e di cinque per la Camera e si dovrà attendere la modifica costituzionale del 1963 per uniformare la durata della due camere.
Erano già allora evidenti i rischi del bicameralismo perfetto, sia rispetto all’attività dell’esecutivo sia rispetto all’espletamento della funzione legislativa, ma prevalse un sistema che privilegiava la rappresentatività e la centralità parlamentare rispetto al potere esecutivo.
Le posizioni dei partiti e dei più autorevoli esponenti politici dell’epoca erano molto differenziate e senza dubbio nella formulazione finale della Costituzione prevalse il timore di dare spazio al rischio di un esecutivo forte.
Riproporre oggi l’antico dibattito sulle funzioni del Senato e sul bicameralismo è però poco interessante poiché oggi non c’è in campo una discussione di principio sul bicameralismo perfetto e non c’è nemmeno una Assemblea Costituente a condurre il dibattito.
In ogni caso, ogni rievocazione storica è pregevole solo se proposta in una prospettiva storica, diversamente è una stupida trasposizione da un’epoca a un’altra senza cogliere il valore e il significato degli avvenimenti.
Se fuori da un contesto storico oggi osservassimo la fiera battaglia condotta da tanti eminenti politici contro la legge elettorale che assegnava un premio a chi aveva la maggioranza assoluta, tanto fiera che quella legge passò alla storia come “legge truffa”, …dovremmo concludere che erano degli sprovveduti, dei poveretti, forse anche un po’ cretini… soprattutto se non ci desta alcun pensiero il dato che oggi improvvisati riformisti e costituenti vorrebbero con un premio trasformare una maggioranza relativa in maggioranza assoluta.
Il protagonista di oggi è il Governo che ha imposto la riforma del Senato e della Costituzione a un Parlamento che è stato eletto con una legge incostituzionale proprio nelle parti che determinano i rapporti di forza e nella parte che determinano gli eletti con modalità che coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento (Corte Costituzionale, sentenza 1/2014).
Il primo punto in discussione, che non dovrebbe sfuggire all’attenzione di qualsiasi storico e commentatore, è proprio la legittimità e l’opportunità politica, di un governo e di un siffatto parlamento, di riscrivere la Costituzione.
In secondo luogo, sarebbe da valutare se il suddetto potere rientri nella funzione di revisione o trasbordi assumendo potere costituente, che questo Parlamento non ha. Perché non c’è dubbio che l’approvazione definitiva della riforma in discussione condurrebbe a un assetto istituzionale con diversi connotati strutturali rispetto a quello licenziato dalla Costituente.
Aldilà di queste considerazioni, non comprendo come mai ci sia così tanta attenzione a un dibattito che prosegue dai tempi della Costituente e allo stesso tempo sia invece scomparso, dal dibattito politico e dalle analisi storiche, un tema che vive dai tempi della Costituente e che svolge un ruolo ma è molto più determinante nel mancato rinnovamento della politica e nel consolidamento delle oligarchie di potere: mi riferisco alla disciplina dei partiti e alla attuazione dell’art. 49 della Costituzione.
Il tema fu ampiamente presente in Costituente. Ricordo in proposito le parole di Calamandrei in occasione del voto sull’infelice art. 49 e sulla norma transitoria che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista: una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici. …C’è nelle disposizioni transitorie, del progetto, un articolo che proibisce «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista». Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome «fascismo», ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c’è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica.
Non se ne fece nulla e alla fine fu licenziato l’infelice articolo 49 che ancora oggi vige: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Come era evidente già nel 1946 (assemblea costituente, Calamandrei e progetto Mortati) non può esserci democrazia se i soggetti politici che detengono il monopolio istituzionale della politica non sono organizzati in modo democratico e trasparente nei processi decisionali interni e nei rapporti con l’esterno (bilanci, gestione economica e finanziaria, finanziamenti e finanziatori…). Negli anni successivi si profilò il rischio – avveratosi – della degenerazione del sistema verso “l’autoritarismo partitico” che Giuseppe Maranini definì “partitocrazia”. Nel 1960 il presidente del senato Merzagora, in occasione dell’ennesima crisi extraparlamentare che portò alle dimissioni del governo Segni, tuonò contro la degenerazione partitocratica: Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari dovessero sempre prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe – lo dico naturalmente per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro.
Con le stesse modalità è avvenuto il cambio di governo tra Letta e Renzi: in 54 anni la cultura politica e la sensibilità democratica e costituzionale ha conosciuto una formidabile regressione.
Un organo di partito, estraneo alle istituzioni parlamentari, decide che l’attuale governo non è all’altezza del momento e chiede al presidente del consiglio in carica, espressione dello stesso partito, di farsi da parte; il presidente obbediente si inchina alla volontà del suo partito e senza alcun riguardo per il parlamento, da cui aveva avuto la fiducia, si dimette. Ergo, a governare è il Partito e non un esecutivo su mandato del Parlamento e la maggioranza del Parlamento deve obbedire al Partito o ai Partiti, persino sulle riforme costituzionali… pena estromissioni, sanzioni disciplinari, gogna mediatica, marchiatura infamante di conservatore…
Forse potremmo sintetizzare tutto ciò affermando che si è compiuto, o si sta compiendo, il passaggio dal Partito-Stato allo Stato dei Partiti.
Il tema della disciplina legale dei partiti e dell’attuazione dell’art. 49 della Costituzione tornò in auge negli anni ’70, quando si discusse di finanziamento pubblico ai partiti; con le lotte del Partito Radicale per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e anche per accertare l’entità dei “profitti di regime”. Poi ancora con la Bicamerale per le riforme istituzionali (1985, commissione Bozzi).
Risultato: nulla di nulla.
Eppure, decenni di storia hanno dimostrato, tanto sul piano storico quanto su quello giudiziario, che i partiti politici, non tutti ma tanti, sono al centro del sistema di corruzione e malaffare che devasta l’Italia. Non solo sono al centro, ma costituiscono il primo motore responsabile della corruzione e delle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni. Non solo perché alcuni politici sono corrotti e mafiosi ma soprattutto perché sono i partiti che scelgono e selezionano i candidati che portano in parlamento e collocano in tutti i posti di potere a controllo politico, vale a dire in ogni ambito della società.
Il tema dell’attuazione dell’articolo 49 era tornato all’attenzione generale nel 2013 all’inizio di questa legislatura. Il PD recuperò un progetto già depositato nella precedente legislatura e lo portò in discussione. Fu subito accantonato per l’opposizione intransigente del Movimento 5 Stelle; opposizione tanto fiera quanto inconsistente nelle argomentazioni.
Il PD non si fece pregare e rinunciò a ogni intervento sulla materia.
Anche il PD è cambiato, intanto, ma l’arrivo di Renzi non ha risollevato le sorti del progetto di riforma dei partiti.
Così, mentre tanti si dichiarano scandalizzati perché si fanno le riforme costituzionali con un “delinquente”, si dimentica che in Italia anche Totò Riina potrebbe fondare un partito politico, divenirne presidente, formare delle liste elettorali e partecipare alle elezioni, non come candidato ma come presidente di un partito: Forza Casa Nostra, potrebbe essere una denominazione convincente?
Sorprende che nonostante quanto sia avvenuto in questi anni a livello locale, quanto le regioni abbiano dimostrato di essere una brutta fotocopia del potere centrale, si pensi di affidare il Senato ai consiglieri regionali. Ogni consiglio dovrebbe scegliere al proprio interno e tra i sindaci alcuni senatori. La scelta non potrà che essere il frutto di accordi tra i gruppi consiliari, senza alcuna trasparenza, senza alcun indirizzo politico e con il rischio di dare più potere ai comitati d’affari che già oggi hanno una notevole influenza sulle scelte di governo locale.
Però, abbiamo eminenti studiosi che ci ricordano il dibattito politico svoltosi in Costituente e negli anni a seguire intorno al bicameralismo.
Peccato che il confronto o lo scontro non sia tra chi vuole superare questo bicameralismo e chi vuole conservarlo, ma sia proprio dovuto al modo in cui si intende superare questo bicameralismo: un modo inefficace, verticistico, partitocratico, criminogeno.
Sempre più spesso ho la sensazione che gran parte del sistema accademico e della nostra cultura non sia al servizio della scienza e della conoscenza ma solo al servizio di una parte politica. Senza dubbio, gran parte del sistema informativo è al servizio di una parte politica.
Informazione e cultura in servizio permanente di una parte politica.