Vitalizi: tra equità e demagogia

Si discute di vitalizi parlamentari e si inciampa nella classica fallacia logica.

L’assunto è che i parlamentari vadano in pensione come tutti gli altri.

Ma a quale “tutti gli altri” vanno assimilati i parlamentari?

Non esiste, infatti, un gruppo omogeneo in cui rientrino “tutti gli altri” che non siano parlamentari.

Se per “tutti gli altri” intendiamo i cittadini che non sono parlamentari è evidente che costoro schematicamente rientrano in uno dei seguenti gruppi:

  • Retributivo: sono coloro che avevano maturato 18 anni di contributi con la legge Dini (1995) e sono andati in pensione entro il 2011
  • Misto: sono coloro che non avevano maturato 18 anni di contributi al 1995 e quindi conservano il calcolo retributivo pro-rata, quindi limitatamente agli anni maturati sino alla legge Dini, e passano al contributivo per gli anni successivi. In questo sistema misto rientrano anche coloro che avevano maturato 18 anni di contributi nel 1995 ma sono andati in pensione dal 2012 in poi (legge Fornero dicembre 2011). Ovviamente, l’importo della pensione diminuirà con l’aumentare degli anni calcolati con il contributivo
  • Contributivo: sono coloro che, essendo entrati nel mondo del lavoro dopo la riforma Dini, avranno un trattamento pensionistico puramente contributivo.

A oggi, quindi, la quasi totalità dei pensionati da lavoro gode di un sistema retributivo; pochi hanno un sistema minimamente misto, si tratta di coloro che sono andati in pensione dal 2012 a oggi. Nei prossimi anni assisteremo all’aumento dei “misti” e poi arriveranno i puri contributivi.

A quale gruppo di “non parlamentari” vogliamo adeguare i parlamentari?

Anche i parlamentari possono essere distinti in più gruppi:

  • Gli eletti per la prima volta nel 2013 sono assoggettati al trattamento previdenziale della pensione del parlamentare che matura dopo 4 anni e 6 mesi di mandato parlamentare e al compimento di 65 anni; età che può scendere sino a 60 anni in ragione degli anni di mandato elettivo aggiuntivi ai primi cinque. L’assegno è calcolato con metodo contributivo.
  • I parlamentari già in carica al 1º gennaio 2012 ai quali si applica il sistema misto pro-rata: la loro pensione risulterà dalla somma della quota di assegno vitalizio definitivamente maturato, al 31 dicembre 2011, e della quota di pensione riferita agli anni di mandato parlamentare esercitato dal 2012 in poi e calcolata con il sistema contributivo. Il trattamento pensionistico matura al conseguimento del duplice requisito anagrafico e contributivo: l’ex parlamentare ha infatti diritto a ricevere la pensione a condizione di avere svolto il mandato parlamentare per almeno 5 anni e di aver compiuto 65 anni di età. Per ogni anno di mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno sino al minimo inderogabile di 60 anni.
  • Gli ex parlamentari che hanno maturato il diritto al vitalizio prima del 2012 e percepiscono un assegno particolarmente generoso rapportato al numero di anni di legislatura.

Quindi, quando si afferma “i parlamentari vadano in pensione come tutti gli altri” cosa si intende affermare?

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E il settimo giorno si riposò

Fino alla soglia degli anni settanta del secolo scorso prevaleva uno stile di vita largamente condiviso: nasci, studi, lavori, vai in pensione. Poi, il mondo è cambiato rapidamente. E persino il dollaro non è stato più convertibile in oro.

L’idea del riposo retribuito, come coronamento di una vita di lavoro, è uno degli aspetti più interessanti e innovativi del sistema nato dal capitalismo industriale e dal conseguente modello consumistico-produttivo che ha stregato tutto il mondo.

La pensione diviene una sorta di reddito di sostituzione di quello da lavoro. Questa tendenza dal 1969 ebbe una forte accelerazione in Italia: la riforma previdenziale sostituiva il sistema contributivo con quello retributivo.

Non solo, si introdusse il metodo retributivo, ma si lasciava ampia facoltà al lavoratore di andare in pensione più o meno quando voleva a partire dal superamento della soglia di 14 anni e mezzo di contribuzione. E la pensione era molto generosa, anche perché la pensione si riscuoteva dal momento dell’uscita dal lavoro e non al raggiungimento di una determinata età anagrafica.

Alla pensione di vecchiaia si affiancava quella di anzianità, cosicché il Paese si avviò a essere abitato da baby-pensionati. Fino a quel momento, secondo la legge del 1952, in pensione si era andati per limiti di età: 60 anni se uomini, 55 se donne; dal 1969 l’Italia diveniva l’unico Paese al mondo in cui chi aveva iniziato a lavorare a 14 anni poteva smettere a 49 e prendere una pensione rapportata alla retribuzione dell’ultimo periodo lavorativo. Se consideriamo che in Italia abbiamo al momento più di 625.000 persone con oltre 90 anni, e 17.850 di queste hanno ne hanno più di 100… è facile comprendere che ci sono diverse migliaia di persone che hanno doppiato l’età di quando sono andati in pensione!

Oggi, si torna a discutere di liberalizzazione dell’uscita dal lavoro. Gli argomenti forti di tale ipotesi sono favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e la considerazione che tanto ormai c’è il contributivo.

Per cogliere il senso di queste argomentazioni occorre mettere qualche punto fermo, se non vogliamo andare a spalare le nuvole. Continua a leggere