Il 17 aprile 2016 si vota per un referendum abrogativo.
Di cosa si tratta?
Il 70% del 30% che sa che si vota risponde: si vota sulle trivelle in mare, per chiudere le trivelle in mare, il solito referendum inutile voluto dagli ambientalisti.
Il referendum è stato voluto da 9 Consigli regionali: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise; all’inizio c’era anche l’Abruzzo che poi si è defilato.
Gli ambientalisti c’entrano poco, anche se vedono con favore questo superstite referendum. Il pacchetto di referendum era originariamente più corposo, ma gli interventi legislativi hanno fatto sopravvivere il quesito per cui si voterà a breve. In realtà si tratta di un quesito riformulato dalla Cassazione che ha dipanato la matassa delle norme su cui il legislatore è intervenuto a più riprese.
Il quesito
Il referendum è relativo all’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208.
Il referendum riguarda l’abrogazione di queste parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”.
Le parole sarebbero cancellate dal comma 239 della cosiddetta Legge di stabilità (L. n. 208 del 2015); riporto il testo su cui interviene il referendum:
“Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette. I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale.”
Eliminando la parte dopo “fatti salvi“, resta il divieto generale entro le 12 miglia, fatti salvi i titoli abilitativi già rilasciati con la loro originaria scadenza.
La norma generale di divieto, con esclusione delle concessioni già rilasciate, porta a ritenere che alla scadenza non vi sia alcuna proroga per affermare, appunto, il divieto generale. In ogni caso, si dovrà riconsiderare ogni singola situazione: il referendum riafferma il principio fondamentale che una concessione pubblica DEVE avere una scadenza certa e a determinarla non può essere il concessionario.
Un bene pubblico può essere dato in concessione a un privato per un tempo determinato e a precise condizioni; da ciò deve derivare un interesse per la collettività, ma lo Stato deve, dopo il periodo concordato, poter riconsiderare l’opportunità di prorogare la concessione.
La stessa normativa europea prevede che le concessioni pubbliche devono “essere limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto esclusivo su aree per le quali la prospezione, ricerca e coltivazione possono essere avviate in modo più efficace da diversi enti” (Direttiva 94/22/CE).
La norma attuale, pertanto, appare in contrasto con il diritto comunitario.
Poiché non incombono sui concessionari obblighi di attività, facendo coincidere la durata della concessione con la “vita utile”, vale a dire sino a esaurimento del giacimento, si verifica la singolare situazione che è il concessionario stesso a decidere la durata della concessione, definendo autonomamente il ritmo delle proprie attività estrattive.
Inaccettabile modo di intendere lo sfruttamento delle risorse pubbliche.
Se fosse un principio corretto, non si comprende perché non si applica alle altre concessioni che invece restano legate alla scadenza pattuita e all’eventuale riconsiderazione della proroga. Continua a leggere →
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