Il Biotestamento è “eutanasia camuffata”?
NO!
Questa è la tesi di una parte del mondo “cattolico”.
In realtà il mondo cattolico “ufficiale” è perfettamente allineato con le posizioni espresse nel disegno di legge noto come biotestamento, il famoso DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento).
Vediamo insieme.
Nella Carta degli Operatori Sanitari, approvata nel 1995 dal Pontificio Consiglio per la Pastorale per gli Operatori Sanitari, si afferma il principio della “proporzionalità nelle cure”: “Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”. Si esprime, quindi, contro il cosiddetto “accanimento terapeutico”.
Per il Pontificio Consiglio “L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia”.
Anche da un punto di vista della dottrina cattolica stiamo quindi parlando di cure e di eutanasia solo quando c’è “indebita sospensione”.
Per il nostro ordinamento ogni cura deve essere autorizzata dal paziente. Questo principio è ben presente anche nella dottrina cattolica. Aggiunge, infatti, il Pontificio Consiglio che “Per il medico e i suoi collaboratori non si tratta di decidere della vita o della morte di un individuo. Si tratta semplicemente di essere medico, ossia d’interrogarsi e decidere in scienza e coscienza, la cura rispettosa del vivere e morire dell’ammalato a lui affidato. Questa responsabilità non esige il ricorso sempre e comunque ad ogni mezzo. Può anche richiedere di rinunciare a dei mezzi, per una serena e cristiana accettazione della morte inerente alla vita. Può anche voler dire il rispetto della volontà dell’ammalato che rifiutasse l’impiego di taluni mezzi”.
Tra il DAT e l’etica cattolica non esiste quindi alcun conflitto.
Non esiste alcuna obiezione etica e dottrinale perché la Chiesa cattolica si opponga alla introduzione del Testamento biologico e, infatti, in Germania non vi si oppone, ma in Italia la CEI e alcuni esponenti politici che si autodefiniscono cattolici intendono mettersi di traverso in applicazione del principio dell’immoralità: “ciò che per me è sbagliato tu non lo devi fare”.
Non c’è etica nell’imposizione per legge. L’etica presuppone possibilità di scelta.
Lasciare che ciascuno decida su come rapportarsi con gli eventi della vita, lasciare che la malattia faccia il suo corso non è eutanasia ma solo libertà di decidere, diritto di autodeterminazione. In forza di quale principio di civile convivenza possiamo pensare d’imporre a tutti la propria visione della vita?
Da molti anni la Chiesa Cattolica Tedesca e la Chiesa Protestante hanno raggiunto un accordo sul testamento biologico, vale a dire su un documento condiviso di volontà per il fine vita già sottoscritto da milioni di fedeli.
Dal 2009 il Parlamento tedesco ha approvato una legge sul testamento biologico che impegna il medico a rispettare le volontà del paziente perché sempre e in ogni caso va affermata la libertà di cura e la libertà di scegliere quali trattamenti sanitari accettare e quali rifiutare.
In nome di quale universalità cattolica parla una parte del cosiddetto mondo cattolico italico?
Siamo arrivati alla chiesa cattolica nazionalista senza essercene accorti o siamo di fronte all’ennesimo scontro tra fazioni sulla pelle dei cittadini?
Il principio della libertà di scegliere quali trattamenti sanitari accettare è largamente presente anche nella legislazione italiana, anzi è proprio un importante caposaldo della riforma sanitaria del 1978: il consenso informato. Concetto sempre più rafforzato sino ad arrivare alla introduzione dell’amministratore di sostegno con legge n. 6 del 2004.
Chissà che facevano i parlamentari cattolici quando approvavano la legge n. 6/2004 più volte utilizzata per negare il consenso a trattamenti specifici nella consapevolezza che questo rifiuto avrebbe portato a conclusione il decorso della patologia con la morte del paziente. In conformità a questa legge il giudice di Modena, per esempio, autorizzò l’amministratore di sostegno a negare l’autorizzazione a effettuare la tracheotomia a una donna sofferente la quale, in assenza di tale intervento, sarebbe andata incontro a morte certa.
Utile leggere un passaggio di questo decreto: “E non è improprio osservare, di fronte all’utilizzo così confuso e improprio del termine eutanasia nell’attuale dibattito italiano, che nessuno dei vari casi su cui oggi si controverte è riferibile a quella fattispecie, che è la sola ragionevolmente appropriata, introdotta e regolamentata dagli ordinamenti olandese e belga che hanno legittimato l’accelerazione del percorso biologico naturale per la persona capace di intendere e volere, che, affetta da sofferenze insopportabili e senza prospettive di miglioramento, chiede le venga praticato un farmaco mortale, se non in grado di autosomministrarselo, ovvero ( e si parla, nell’ipotesi, di suicidio assistito) di fornirglielo in modo che possa assumerlo. Rientrano, all’opposto, nel diritto, allo stato dell’ordinamento già compiutamente ed esaurientemente tutelato dagli art. 2,13 e 32 Cost., di autodeterminazione della persona al rispetto del percorso biologico naturale il caso del capace che rifiuti o chieda di interrompere un trattamento salvifico”.
Chi fosse interessato può leggere a questo indirizzo il decreto del giudice Stanzani https://www.studiolegalerudi.it/attachments/1589_Stanzani_13-05-2008.pdf
Perché tirare sempre in ballo inesistenti questioni etiche, scomodare principi altisonanti come “l’inviolabilità della vita”, riducendoli a sterili bandierine degne delle tifoserie acefale, quando la posta in gioco è il semplice rispetto della volontà del paziente?
Un individuo ha il diritto di rifiutare un trattamento medico?
Un individuo ha il diritto di accettare qualche trattamento e rifiutarne altri?
Il nostro ordinamento conduce a una sola risposta: SI e occorre rispettare la volontà del paziente.
La decisione non può che essere individuale; è giusto che l’individuo sia posto di fronte alle sollecitazioni che arrivano dai diversi punti di vista (clinico, etico, religioso…), ma alla fine spetta a lui la decisione. Sulla terapia come sulla sospensione della terapia.
Da anni, però, ogni volta che un nuovo caso ci pone di fronte a questi problemi si scatena la solita bagarre inconcludente.
Eutanasia e testamento biologico sono due fronti profondamente diversi.
Eutanasia è un comportamento attivo per provocare la morte.
Sospendere una cura, anche se da tale sospensione può derivare la morte, significa lasciare che la malattia faccia il suo corso. Principio ampiamente presente nel nostro ordinamento.
Se si dovesse parlare di eutanasia ogni volta che qualcuno rifiuta una cura, allora l’eutanasia esiste in Italia da decenni e non si comprende, allora, di cosa stiano a discutere tanti politici e tante autorità religiose.
Il medico agisce su mandato del paziente che dà il proprio consenso informato; quando il paziente dice basta, il medico non è tenuto a fare qualcosa ma solo a cessare di fare; e in questi casi si procede a una terapia sedativa (se richiesta).
Se il paziente chiede di fare qualcosa per morire subito senza attendere il decorso naturale della malattia, allora si passerebbe a un comportamento attivo che configurerebbe l’eutanasia e, per le nostre leggi attuali, omicidio del consenziente, suicidio assistito.
Con il termine eutanasia si fa spesso riferimento a questo insieme di situazioni profondamente diverse: testamento biologico, libertà terapeutica, terapia del dolore, suicidio assistito… ma è bene tenere distinti i diversi livelli.
Evidentemente, interessi politici portano taluni ad alimentare la confusione e il disorientamento ma qui si tratta solo ed esclusivamente di colmare i vuoti normativi che da troppi anni producono il ricorso alla clandestinità o a lunghe battaglie giudiziarie; vuoti che espongono il medico a rischio di accertamenti sia di carattere professionale sia di carattere penale.
Il DAT è un doveroso un intervento legislativo per risolvere tutte quelle situazioni drammatiche che periodicamente le cronache giornalistiche ci rappresentano, consentendo che senza ulteriori lacerazioni e sofferenze una persona possa essere libero di decidere.