La nuova riforma costituzionale riconferma la centralità del Parlamento; a una prima lettura, non si vede il motivo di tanta ostilità verso questa riforma.
In fondo, si tratta solo di una Costituzione scritta in modo confuso, che lascia troppi poteri al Senato, rischiando di creare nuove situazioni di ingovernabilità; nulla a cui non siamo già abituati. Ciò è riconosciuto anche da alcuni sostenitori della riforma.
Con la nuova riforma del Titolo V si ritorna al passato conflittuale tra Stato e Regioni?
Certamente sì, perché sono state abolite le materie concorrenti, ma l’ampliamento delle materie trasversali e la Clausola di supremazia (art 117 della nuova Costituzione) porteranno a una stagione di intensa conflittualità. Peccato, perché la conflittualità era avviata a soluzione, grazie alla intensa attività giurisprudenziale di questi ultimi quindici anni, ma anche su questo si può soprassedere.
Di positivo, per tanti, c’è la fine del bicameralismo paritario: il Senato non dovrà più dare la fiducia al Governo.
Non si supera il bicameralismo, perché il Senato conserva tanti e confusi poteri. Potrebbe costituire un elemento di ingovernabilità perché può legiferare su ogni materia (1° comma, art. 71) e, in ogni caso, deve obbligatoriamente esprimersi su leggi costituzionali, leggi elettorali, tutto ciò che riguarda le istituzioni elettorali, tutto ciò che riguarda l’Unione europea e la ratifica dei Trattati europei… e tanto altro ancora.
Pessimo il metodo di nomina dei senatori, demandato a ciascun Consiglio regionale che manderà in Senato, scegliendo con metodo proporzionale, qualche consigliere e un sindaco tra quelli della regione. Se avessimo già da tempo questo tipo di elezione, Minetti, Fiorito o il Trota… sarebbero potuti divenire senatori.
Un Senato che formalmente rappresenta le istituzioni territoriali, ma in realtà rappresenta le forze politiche di origine, senza un mandato politico e con il rischio che non ci sia una maggioranza politica. Un Senato che non potrà svolgere un raccordo tra l’attività legislativa delle regioni e tra le regioni e lo Stato, perché la riforma non individua strumenti concreti per realizzare questa funzione.
L’elezione del Senato rappresenta un vulnus per la democrazia: non si comprende perché una assemblea non eletta dai cittadini debba avere competenze differenziate che vanno dalla elezione del presidente della repubblica alla approvazione delle leggi costituzionali.
Una riforma monca, confusa che solleva un gran polverone quando per superare l’aspetto più condiviso bastava modificare due parole dell’art 94: il governo deve avere la fiducia della Camera dei deputati (e non “delle due camere“).
Vista così, c’è già motivo di misurata preoccupazione.
Per comprendere appieno la portata della riforma, occorre leggerla insieme alla legge elettorale.
Con la legge elettorale un solo partito avrà con assoluta certezza, e potenzialmente anche con pochi consensi, la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei deputati.
Attraverso il voto, gli elettori decidono a quale partito affidare il Governo del Paese, però formalmente votano per scegliere i propri rappresentanti.
Un Partito controllerà il potere esecutivo e il potere legislativo: le due cose coincidono. Il Governo legifera e il parlamento converte e pone il sigillo notarile. Si esclude a priori la dialettica parlamentare giacché UNO SOLO ha con certezza la maggioranza assoluta.
Per default, il Governo MONOCOLORE.
Non esiste in nessun paese democratico un sistema simile.
Ciò succederà con un Parlamento in cui solo la Camera avrà il rapporto fiduciario con il Governo e in cui il Senato ha un potere ridotto, non rappresenta la Nazione e non è eletto dai cittadini.
Si comprime seriamente la rappresentatività del Parlamento, senza aver risolto il problema della governabilità. Perché non è stato modificato nulla riguardo alla governabilità e una semplice scissione del primo partito può determinare cambi di maggioranza. Non c’è la sfiducia costruttiva e non c’è lo scioglimento della Camera in caso di crisi nel partito di maggioranza. La governabilità è assicurata esclusivamente dalla coesione del partito che vince le elezioni.
La legge elettorale comporta che la maggioranza degli eletti sarà imposta dai partiti e con il premio, assegnato al primo partito per dargli la maggioranza assoluta dei seggi, si altera profondamente il rapporto tra voti raccolti e seggi. Il premio può essere di circa 90 parlamentari, se un partito vince al primo turno con il 40%, ma può in astratto arrivare anche a 320, se vince al secondo turno al quale parteciperanno i due partiti più votati purché abbiano superato la soglia del 3%… e non è previsto un quorum di votanti. Stessa situazione del porcellum!
La democrazia decidente prende corpo nella elezione diretta del partito di governo senza alcuna garanzia e alcun contrappeso.
La funzione di controllo sull’operato del Governo spetta esclusivamente alla Camera dei deputati (art 55 del nuovo testo costituzionale): controllore e controllato coincidono poiché il controllore è colui che esprime il controllato. E il controllore non ha nemmeno il conforto del sostegno diretto degli elettori poiché una parte consistente degli eletti sarà imposta dai partiti e, in ogni caso, sono i Partiti che hanno il monopolio della selezione dei candidati.
Un solo partito controlla tutto, senza contrappesi.
Non lo è il Presidente della repubblica, oltretutto eleggibile con i 3/5 dei votanti… (art 83 della nuova Costituzione).
Non lo è la Corte Costituzionale che non può essere interpellata direttamente, ma solo instaurando un procedimento giudiziario.
Avremo lo statuto delle opposizioni e il regolamento parlamentare (art 64 nuova Costituzione)indicherà i diritti delle minoranze parlamentari, ma tutto è lasciato al regolamento della Camera che sarà approvato a maggioranza assoluta. Potrà essere il solo partito vincente a scrivere lo statuto delle opposizioni… Niente male come garanzia.
Una democrazia del monopartitismo in un sistema pluripartitico.
Sembra un gioco di parole ma non lo è. Ci sono più partiti, ma solo uno avrà ogni potere… poi dopo cinque anni si tornerà a scegliere… chissà. Al fascismo bastò molto meno per diventare regime totalitario. Senza voler evocare spettri del passato, voglio rappresentare una situazione pasticciata in cui attraverso la combinazione tra legge elettorale e riforma costituzionale un Parlamento dei Partiti, un Parlamento di usurpatori della sovranità popolare, pretende di cambiare i connotati della Repubblica, di introdurre la libera dittatura monopartitica, senza nemmeno aver riformato il sistema dei partiti per introdurre democrazia e trasparenza nei processi decisionali interni ai partiti, nella selezione dei candidati, nell’affidamento degli incarichi.
Organizzazioni non democratiche, i partiti, scelgono in modo opaco le persone da collocare in parlamento e poi attraverso una competizione elettorale noi elettori decidiamo a quale di queste organizzazioni opache affidare la guida del Paese. Però tutto questo non ci viene rappresentato con chiarezza e la Costituzione riscritta racconta un altro film.
Ecco realizzata la libera dittatura monopartitica in un consolatorio contesto pluralista.
La democrazia decidente è la dittatura della maggioranza che non è…
… perché prodotta con un artificio distorsivo del sistema proporzionale scelto dal legislatore.
“Per far funzionare un parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione. Ma non nel senso gastronomico in cui quel ghiottone che fu Iarro soleva dire che «per mangiare un tacchino bisogna essere in due: io e il tacchino»; questa ricetta da buongustaio non vale per il parlamento, dove la maggioranza non deve essere un ventricolo pronto a trangugiare l’opposizione, né un pugno per strangolarla, né un piede per schiacciarla come si schiaccia un tafano sotto il tallone. (…) Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza” (Piero Calamandrei, luglio 1948).
Dal partito Stato allo Stato dei partiti: il viaggio si sta concludendo.