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La riforma del Titolo V della Costituzione


Senato e riforma del Titolo V della Costituzione (Regioni, Provincie, Comuni) sono gli aspetti più corposi di questa riforma della Costituzione.

L’intervento sul Titolo V della Costituzione costituisce una riforma della riforma del 2001.
Prova incontestabile che le riforme possono essere pessime.
L’idolatria della riforma e del cambiamento la lascio volentieri agli sciocchi, perché le riforme vanno sempre analizzate nel merito.

La riscrittura del Titolo V non tiene conto della evoluzione istituzionale avvenuta in questi ultimi 14 anni e della controriforma del 2012. Interrompe la vasta attività legislativa delle Regioni, intervenendo su processi ancora in atto. Amplia gli spazi di contenzioso. Non risolve alcun problema.

La riforma del riformato Titolo V riconferma i princìpi della riforma del 2001, senza risolverne le incongruenze e inefficienze. Mentre elimina la legislazione concorrente, amplia le materie trasversali, introduce una illimitata ingerenza dello Stato sulla potestà legislativa delle Regioni, non realizza quanto indicato dalla Corte Costituzionale nelle numerose sentenze su diversi aspetti della riforma del 2001.

Alla transitorietà ancora in atto in dipendenza della riforma del 2001 si sommerà quella che sarà avviata dalla nuova riforma.

Perché la riforma del 2001 è stata un fallimento?

La riforma del 2001 è imperniata sul principio autonomistico degli Enti territoriali e sulla divisione della potestà legislativa tra Stato e Regioni.

Le materie trasversali tra Stato e Regioni hanno generato un intenso contenzioso, causato dalla difficoltà di individuare confini certi tra le competenze regionali e quelle statali trasversali.

A peggiorare il quadro sono intervenute le leggi costituzionali del 2012; mi riferisco alla legge n. 1 e n. 243 del 2012. Con queste leggi è stato introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio, vale e a dire l’equilibrio tra entrate e spese. L’entrata in vigore era differita all’esercizio 2014, cosicché a livello giurisprudenziale queste modifiche non hanno ancora prodotto i loro effetti. Queste leggi intervengono sul Titolo V della Costituzione perché l’armonizzazione dei bilanci pubblici diventa esclusiva competenza statale.

Gli interventi legislativi del 2012 costituiscono una vera e propria contro-riforma dell’autonomia regionale e locale rispetto al testo costituzionale del 2001. L’impatto avviene tanto sull’autonomia finanziaria, quanto sul sistema dei rapporti tra Stato e Autonomie territoriali quali enti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 della Costituzione.
L’espansione della potestà legislativa dello Stato in materia di “coordinamento della finanza pubblica” riduce sensibilmente gli spazi di autonomia finanziaria che si pensavano garantiti sia dall’inserimento di tale competenza legislativa tra quelle “concorrenti” di cui all’art. 117, 3° comma della Costituzione, sia dalla formulazione dell’art. 119 a seguito della riforma del 2001.

La nuova riforma del Titolo V non tiene conto delle complessità emerse.
Il riaffermato principio dell’autonomia finanziaria è un fondamento del concetto stesso di “autonomia”, poiché consente di misurare il tasso di “autonomia politica” di un ente territoriale, ma con la riforma non si giunge a provvedimenti conseguenziali in grado di assorbire la conflittualità.

L’eliminazione delle materie concorrenti è una operazione semplicistica perché sono le materie trasversali, ampliate dalla riforma, ad aver generato contenzioso; inoltre, la nuova “clausola di supremazia”, poiché rende illimitata la potestà dello Stato, comprime ulteriormente la potestà legislativa delle Regioni e sarà causa di conflittualità.

Considerati i problemi applicativi della riforma del 2001 e gli effetti della controriforma del 2012, il legislatore costituente si trovava sostanzialmente tra due ipotesi alternative: tornare al modello originario e ricondurre le Regioni a enti amministrativi oppure intervenire sulla riforma del 2001 risolvendo le incoerenze e quindi realizzando pienamente il pluralismo istituzionale e legislativo, individuando un luogo istituzionale per dare certezza sui confini tra potestà legislativa statale e regionale.

Il principio autonomistico, infatti, non si è realizzato per la “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi” (sentenza n. 6/2004 Corte Costituzionale), vale a dire per la mancanza di sedi istituzionali, strumenti e procedure che garantissero il coinvolgimento delle autonomie nel circuito decisionale della legislazione di livello nazionale.

La Corte costituzionale ha riconosciuto che esistono alcune materie di competenza esclusiva statale e altre di tipo “trasversale”.
Si tratta di tutte quelle materie in cui lo Stato enuncia una finalità, “le disposizioni generali e comuni”, “le disposizioni di principio”, le “norme tese (…) ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale”… Queste materie non circoscrivono un ambito della legislazione, ma si intrecciano con competenze affidate alla potestà legislativa delle regioni. Proprio perché “trasversali”, si muovono e agiscono orizzontalmente nell’ordinamento, coinvolgendo interessi e ambiti molto diversi tra loro.

Si tratta dunque di individuare entro quali limiti lo Stato può comprimere la sfera delle competenze legislative e amministrative delle regioni.

L’individuazione di una linea di confine tra materie statali e materie regionali non è stato agevole in questi 14 anni di applicazione e i dubbi di interpretazione, in mancanza di una stanza di compensazione politico-istituzionale, hanno generato controversie rimesse alla Corte costituzionale.

La riforma del Senato non può risolvere il problema indicato. Il Senato non potrà essere la Camera delle Regioni sia per la modalità di elezione dei senatori (diversamente a quanto avviene in Germania, i nostri senatori non avranno un mandato politico, non saranno delegati dal governo regionale, non avranno vincolo di mandato), sia per la varietà e vastità delle funzioni che non costituiscono un raccordo con le competenze statali trasversali, la clausola di supremazia e le modifiche introdotte nel 2012.

Il nuovo Senato non è rappresentativo delle Istituzioni territoriali e non è sede di elaborazione di un “indirizzo politico repubblicano.

La nuova riforma non individua come stabilire i confini tra competenze statali e competenze regionali e non realizza alcun centro istituzionale in cui i conflitti possano trovare la soluzione.

Dalla semplice lettura del nuovo art. 117 si ricava l’ampliamento dell’incertezza sui confini tra competenze statali e regionali quando si fa riferimento alle “disposizioni generali e comuni”: salute, sicurezza alimentare, sicurezza sul lavoro, istruzione, attività culturali e turismo, governo del territorio.
Il quadro poi si complica con la clausola di supremazia in base alla quale lo Stato può incidere sulla potestà legislativa regionale senza limiti reali.
Recita il testo: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale”.
Su proposta del Governo… Cosa debba intendersi per unità giuridica e unità economica della Repubblica e per interesse nazionale non è affatto agevole, pacifico e condiviso.
Si tratta di una previsione potenzialmente illimitata e alternativa al riparto della potestà legislativa, riaffermato in apertura dell’art. 117 della Costituzione, in grado di far esplodere la conflittualità tra governi regionali e governo nazionale.

Da tutto ciò, non potrà che scaturire una nuova lunga stagione di inefficienza e contenzioso costituzionale.

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