Il ddl Cirinnà con la previsione di adozione del figlio del partner (la famosa Stepchild adoption) ha offerto il pretesto per introdurre prepotentemente il dibattito sulla cosiddetta “maternità surrogata”.
Tra le due cose non c’è alcuna attinenza e nessuno ha portato argomenti per dimostrare che la Stepchild rappresenti un aggravamento del rischio al ricorso alla GPA (gestazione per altri).
La Stepchild prevista nel ddl Cirinnà non modifica le pene previste per chi ricorre alla “maternità surrogata” (art. 12 legge 40/2014); non prevede per i componenti della unione civile un iter facilitato per accedere alla adozione (limitata alla possibilità di chiedere l’adozione del figlio del partner); non prevede alcun automatismo per accedere alla adozione (che dovrà sempre essere verificata dal Tribunale dei minori, al quale compete il compito di verificare che l’adozione sia nell’interesse del minore, secondo il rigoroso iter previsto dalla normativa vigente).
Non è stato sinora presentato un solo argomento a sostegno della tesi che la Stepchild adoption sia un incentivo alla GPA.
Cosa succederebbe se non passasse la norma sulla stepchild adoption?
Non riconoscendo a una persona la possibilità di adottare il figlio del partner, le cose resterebbero come sono; vale a dire, quel bambino vivrebbe in quella casa, con quella coppia composta da un genitore e dal suo partner. Tranne il caso non intervenga l’autorità a sentenziare che quel genitore non è più idoneo al ruolo, ma questo può avvenire anche se contempliamo la possibilità dell’adozione.
Quindi, prevedere la possibilità dell’adozione del figlio del partner è una tutela in più, in caso di accoglimento della domanda da parte del Tribunale; non prevedere la possibilità dell’adozione del figlio del partner è con certezza una tutela in meno.
Non c’è sul piano logico, culturale e giuridico alcun argomento a favore per non prevedere la possibilità dell’adozione.
Sgomberato il campo dalle strumentalizzazioni partitiche, proviamo a ragionare sulla cosiddetta “maternità surrogata”.
Non mi convince l’espressione “maternità surrogata“; preferirei gestazione o gravidanza surrogata.
Non è un fatto nominalistico.
La maternità comincia con la gravidanza quando c’è la scelta di divenire madre e l’assunzione della genitorialità.
Poiché – giustamente – anche la donna può rifiutare la maternità non riconoscendo il figlio (e il rifiuto può esprimersi anche con altri mezzi più cruenti) non si può far coincidere la maternità con la gravidanza.
La speciale relazione donna-figlio non è sempre così speciale; non ha sempre le stesse implicazioni. Per alcune donne la maternità inizia con il concepimento, per altre non inizia nemmeno con il parto. Utilizzare l’espressione maternità surrogata significa proporre un appiattimento della donna sulla sfera biologica e fisiologica.
Si è madre e padre quando si accetta di esserlo con il riconoscimento della prole.
Ne consegue che la GPA è come una gravidanza indesiderata che invece di essere interrotta è portata a termine. Un pezzo importante del mondo cattolico promuove la scelta di non abortire, mettere al mondo il bambino e darlo in adozione. Dov’è la speciale relazione madre-figlio in questa impostazione?
Il presunto “diritto alla mamma e al papà” non esiste. Il babbo non sempre c’è; da sempre esistono le ragazze madri e in queste situazioni il ruolo del padre si esaurisce nell’essere portatore di un gamete. Da tanto tempo la mamma ha la facoltà di non riconoscere il bambino alla nascita o addirittura rifiutare di portare a termine la gravidanza. In nessuna di queste situazioni si chiede al bambino se vuole essere abortito o abbandonato. Quindi, non si può parlare di diritto alla mamma e al papà.
La civiltà tenta di risolvere questo dramma e afferma che il bambino non è proprietà dei genitori; il bambino è un soggetto indipendente che gode di tutela giuridica; i genitori hanno la potestà genitoriale sul minore finché ne sono degni.
Ne consegue che madre e padre sono coloro che crescono i figli, possibilmente con amore, attenzione, disponibilità.
Ne consegue che i gameti di due persone di sesso diverso servono per generare un figlio, ma per crescerlo non servono un padre e una madre, ma una o più persone che si prendono cura del bimbo e della casa in cui crescerlo; serve una famiglia in cui esista assistenza materiale e morale, capacità di educare e crescere un bambino in un ambiente idoneo.
La psicologia infantile ci spiega che la crescita equilibrata di un bambino richiede le componenti protettive e prescrittive, che rispettivamente identifichiamo con la madre e il padre. In realtà queste componenti esistono con gradazioni diverse in ogni persona e non è infrequente che a essere prescrittivo sia la madre e a essere protettivo sia il padre. Non è dunque rilevante il sesso di chi rappresenta queste componenti, è utile che entrambe siano presenti.
Proseguendo su questo percorso chiarificatore, almeno per me, direi che è pacifico che i figli non siano un diritto.
Non esiste il diritto ad avere un figlio, ad avere un coniuge o un partner, a fare sesso…
Esiste il diritto di ogni persona umana a
– costruire relazioni affettive (matrimonio, convivenza), aldilà dei legami parentali (non scelti)
– esercitare la propria sessualità,
– avvalersi della propria capacità riproduttiva.
Tutto ciò non significa che ogni persona abbia il diritto al figlio, al coniuge, al sesso.
Il tema principale della posizione abolizionista nei confronti della GPA è sostanzialmente il timore che il profitto e il mercato invadano la speciale relazione donna-bambino, gestante-feto.
Timore fondato e reale. Peccato che il mercato e il profitto abbiano già invaso ogni fase della vita dal concepimento alla morte. Senza farla troppo lunga, basti pensare a quante lucrose attività ruotano intorno alla procreazione assistita per soddisfare il bisogno di avere un figlio. Bisogno spesso indotto da una sorta di idolatria e ideologizzazione della maternità.
Quindi, senza sindacare sul percepito bisogno di genitorialità, penso sia meglio ragionare intorno a una efficace regolamentazione della GPA.
D’altra parte, se è consentita la donazione di organi tra viventi, perché non deve essere consentito il semplice affitto di un organo?
Sostenere il divieto appellandosi alla “speciale relazione madre-figlio” non regge perché, come abbiamo visto, si tratta di una fantasia se la affermiamo erga omnes e se invece correttamente la intendiamo come condizione soggettiva, che può esserci come non esserci, allora non possiamo che rimetterci alla volontà delle persone.
Anche su queste materie non credo ai divieti, soprattutto se in giro per il mondo è consentito quanto in Italia è proibito.
Penserei a una seria regolamentazione prevedendo iter autorizzativi ben definiti, sulla scorta di quanto previsto per l’amministratore di sostegno.
A questo punto c’è chi sta in mezzo al guado e apre alla GPA solidale (per la figlia, la nipote, l’amica…) ma no alla GPA dietro compenso economico.
Se si considera che con la cruda espressione “utero in affitto” si vuole connotare negativamente la gravidanza surrogata, non mi sembra una gran soluzione la distinzione tra causa nobile e causa mercenaria. Nell’ottica solidale l’affitto diviene comodato gratuito. Questione di stile ma non di sostanza.
Chi respinge la GPA non può vedere nella ipotesi solidale una soluzione perché rappresenterebbe, in nome di un percepito “bisogno” di un figlio o di un malinteso “diritto ad avere un figlio“, una deroga a quel rapporto unico e naturale che per tanti è la relazione tra madre e figlio.
Va poi considerato che, se qualcosa può essere fatto gratuitamente per amore verso gli altri, non si vede perché non possa essere fatto a pagamento per il proprio amore e benessere, per i bisogni della propria famiglia.
Se una gravidanza può essere interrotta per ragioni economiche, perché non deve poter iniziare per ragioni economiche?
Pragmaticamente dico, regoliamo la GPA perché i divieti non hanno funzionato e appare irrealistico l’obiettivo di messa al bando mondiale della GPA.
Se giungessimo alla regolazione della GPA, vorrei un iter autorizzativo rigoroso che accerti le condizioni delle parti coinvolte e vorrei che fosse riconosciuta alla “gestante” l’ultima parola perché il figlio è di chi l’ha nutrito, cresciuto e partorito.
D’altra parte se i “committenti” avessero un ripensamento, sparissero dalla circolazione… potremmo obbligare la donna ad abortire? NO
Se si arrivasse a un ordinamento sulla GPA vorrei fosse affermato il principio che spetta alla donna decidere se consegnare il bambino ai “committenti” o tenerlo. Al massimo si compra il tempo di gravidanza, si remunera il rischio della gravidanza, ma non il figlio perché il bambino non può essere un prodotto e va salvaguardata la possibilità che la donna “proprietaria dell’utero che ha affittato” scopra strada facendo quella relazione speciale tra donna e bambino.
Questo è il punto a cui sono arrivato riflettendo sul tema.