Il caso Marino ha assunto toni farseschi degni di una realtà e cultura politica che fa impallidire Cetto La Qualunque. La realtà politica è più comica della finzione cinematografica, ma proprio per questo assume i toni drammatici che solo la messinscena della realtà può avere: se non fosse realtà, verrebbe da ridere.
In tanti hanno dato interpretazioni dell’accaduto e su tutte spicca quanto scrive Gilioli in Non è politica, è bullismo; vi invito a leggere questo contributo. Molto interessanti i retroscena raccontati da Marco Causi: testimonianza della pessima qualità del personale politico ormai incapace di decenza, dignità e pensiero.
Ma anche Gilioli ha commesso un errore… non usa brillantina Linetti. Scrive Gilioli: “La questione oggi, infatti, non è più se Marino ha fatto errori ma è se la caduta di un governo cittadino debba avvenire nell’aula dei rappresentanti eletti dai cittadini – cioè il consiglio comunale – oppure debba avvenire con uno stratagemma (le 25 dimissioni) che impedisca il confronto pubblico, deciso in una sede non istituzionale e non rappresentativa dei cittadini, su imposizione del commissario di un partito e con i suoi consiglieri che obbediscono all’ukase per la paura di non essere ricandidati. E questo ovviamente varrebbe chiunque fosse il sindaco, e pure se fosse Barbablù.”
La questione oggi? Ma neanche per sogno! La questione che oggi si ripropone è vecchia di qualche decennio e ha raggiunto l’apice con l’avvento di Renzi al governo. Tutto avviene e si decide fuori dalle sedi istituzionali perché questo è il tratto caratteristico della partitocrazia.
E’ la questione che caratterizza la storia repubblicana: le crisi di governo extraparlamentari. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari dovessero sempre prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe – lo dico naturalmente per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro. Una democrazia che avvilisce il Parlamento avvilisce se stessa e le masse elettorali”, Cesare Merzagora, presidente del Senato, 25 febbraio 1960. Si consumava allora la crisi del governo Segni che lasciò il posto al governo Tambroni.
Tanto per rinfrescare la memoria, con l’operazione Renzi siamo tornati indietro di 54 anni. Il governo Letta lascerà il passo al governo Renzi con una manovra extraparlamentare che è la peggiore conferma del sistema partitocratico che da sempre regge la Repubblica Italiana.
Dunque, Renzi, neo-segretario del PD, decide, nel corso di una direzione di partito, che l’esperienza del governo Letta è terminata.
La direzione di un partito è un soggetto di diritto privato. Il partito è una associazione privata che riunisce i propri organi direttivi, discute e decide. Il Governo Letta è stato appena riconfermato dal Parlamento, l’unico che per Costituzione può dare e ritirare la fiducia al Governo.
Il gruppo parlamentare del PD, parte della struttura legislativa dello Stato e quindi certamente figura di diritto pubblico, chiede una verifica di governo, un dibattito parlamentare, presenta la sfiducia…?
Nulla di tutto ciò perché il presidente Letta presenta le proprie dimissioni e il presidente Napolitano le accoglie aprendo le danze per la successione, già in realtà pianificata in ogni dettaglio.
Letta ha dimostrato di non avere alcuna cultura istituzionale e di essere un dipendente del suo Partito a cui ha obbedito. Certamente ha dimostrato di non essere il presidente del governo della Repubblica italiana. Figlio partitocratico di una cultura partitocratica post-fascista che ha garantito il traghettamento dal Partito Stato allo Stato dei Partiti.
E Napolitano?
Peggio ancora. Invece di pretendere, da custode della Costituzione, un passaggio parlamentare per verificare che la volontà della direzione di un partito coincidesse con la volontà dei parlamentari, si è adoperato per evitare un confronto parlamentare e ha avallato decisioni extraparlamentari umiliando e mortificando il Parlamento e le Istituzioni.
Prodi ebbe il merito di interrompere lo scempio delle crisi extraparlamentari. Prodi parlamentarizzò ogni crisi di governo. Ma anche lui commise l’errore di dimettersi nel 2008, quando incassò la sfiducia al Senato. Se avesse avuto la lungimiranza dello statista avrebbe chiesto lo scioglimento del Senato.
Il pessimo Napolitano ne approfittò immediatamente, dimostrando di essere scadente interprete della Costituzione; si rifugiò nella codardia tipica di chi ossequia la prassi e calpesta la lettera costituzionale e sciolse il parlamento invece di sciogliere il solo Senato. Così, tutti possiamo ringraziare Napolitano per aver contribuito a farci perdere cinque anni in inconcludenti contrapposizioni tra berlusconiani e antiberlusconiani.
Allora, perché stupirsi di quanto avvenuto a Roma?
Marino con le sue ingenuità e superficialità ha gestito malissimo tutta questa vicenda. In un certo senso è stato complice delle pugnalate che ritiene di aver ricevuto. Dopo aver dato, sbagliando, le dimissioni, le ha ritirate per rimettersi al Consiglio Comunale, al confronto politico, al dibattito per infine comprendere per quali ragioni dovesse essere considerata conclusa la sua amministrazione di Roma Capitale. Per una questione dubbia di cene e scontrini? Per il funerale dei Casamonica? Per una polemicuccia con il Vescovo di Roma? Per cosa infine?
Marino da sempre non era gradito a parte del suo stesso partito. Quel PD commissariato e pesantemente coinvolto nelle faccende criminali di Mafia Capitale e responsabile di gran parte dei problemi che affliggono Roma. Problemi che non sono nati con Marino e che certamente Alemanno ha aggravato, ma certamente non è il padre di tutti i problemi di Roma.
In tanti volevano liquidare Marino, e non solo per ragioni di competizione politica, come da sempre desiderano i consiglieri del Movimento Cinque Stelle. In tanti volevano liquidarlo per ripristinare quella amministrazione parallela della Capitale che vede complice gran parte delle forze politiche che da sempre governano Roma. Una amministrazione criminale, parallela a quella istituzionale che, pigra, distratta e sonnolenta, mai vedeva. Come è possibile che il primo partito dell’Urbe non si fosse reso conto di nulla? O sono imbecilli o sono complici.
Così, i consiglieri di Pd, NCD, CD, fittiani già ex-alemanniani e lista Marchini hanno impedito ogni confronto vero sulle ragioni della decadenza della giunta Marino e si sono dimessi dando vita al primo tempo della nuova ammucchiata che governerà Roma con la benedizione vaticana.
Tutti uniti in un nuovo patto che con molta probabilità porterà alla nascita di una bella Lista Nazionale per salvare l’Urbe dai barbari grillini, ritenuti incompetenti e inadeguati. Può darsi, ma sinora i competenti professionisti della politica hanno fatto tanti guai e hanno dimostrato competenza e destrezza nelle attività criminali.
La vecchia partitocrazia si appresta a compiere un nuovo sacco di Roma.
La situazione tragicomica che si è materializzata dimostra l’inconsistenza democratica delle nostre istituzioni.
È proprio questa inconsistenza democratica delle nostre istituzioni che dovrebbe preoccupare quando un parlamento di usurpatori della sovranità popolare approva l’italicum e si arroga il diritto di riscrivere la Costituzione. Il rispetto delle regole democratiche sono già da tempo saltate, figurarsi cosa potrà succedere con un sistema in cui si esclude a priori l’esigenza del confronto politico perché a un Partito sarà garantita la maggioranza assoluta alla sola condizione che qualcuno voti.
Ma non mi sembra che ci sia molta consapevolezza di ciò.
Siamo troppo lontani dalla comprensione della realtà.
Diversamente, nessuno si stupirebbe per quanto avvenuto fuori dalle sedi democratiche del governo di Roma, dopo aver taciuto, applaudito, salutato i vandali che stracciavano la Costituzione destituendo Letta e intronando Renzi.