A un anno di distanza dalla legge che ha formalmente abolito il finanziamento pubblico ai partiti e introdotto norme per accedere a nuovi benefici economici, possiamo dire che i benefici ci sono mentre la trasparenza e la democraticità interna ai partiti restano nebulose.
Qualcuno afferma, a partire dal legislatore che approva la nuova legge intitolandola “Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”, che il finanziamento pubblico ai partiti sia stato abolito. Non è così, non solo perché il vecchio sistema di finanziamento è gradualmente abolito, ma soprattutto perché in forma diversa sono sempre soldi pubblici quelli che sono messi nella disponibilità dei partiti. Devolvere ai partiti parte delle tasse pagate dai contribuenti o far pagare meno tasse grazie a sgravi fiscali significa utilizzare risorse pubbliche.
Sin dall’inizio, legge 96/2012 e poi con la legge 13/2014, appariva singolare che si approfittasse della nuova disciplina per il finanziamento dei partiti per introdurre misure di trasparenza nella vita dei partiti stessi. Altrove, dalla Germania alla Francia, da molti anni è stata varata una disciplina organica sui partiti politici; da noi si sprecano i progetti, dalla Costituente alla attuale legislatura, ma approvando norme che per il momento sono lettera morta.
La nuova legge, approvata a febbraio 2014 affida alla “Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici”, il compito di verifica formale degli Statuti per controllare che prevedano quanto stabilito dalla legge: statuto risultante da atto pubblico, simbolo del partito, diritti e doveri degli iscritti, misure disciplinari, periodicità dei congressi, modalità di selezione delle candidature, organi e procedure deliberative, diritti degli iscritti, misure disciplinari, indicazione del responsabile della gestione economico–finanziaria…
Dall’esito di tale verifica dipende l’iscrizione nel “registro dei partiti politici”, tenuto dalla stessa Commissione, e quindi l’ammissione del partito ai benefici economici.
La Commissione è affidata a cinque magistrati e per il momento tutto dorme.
Gli Statuti al momento disponibili sono un concentrato di nebulosità e vaghezza. Democrazia e trasparenza nei partiti sono ancora semplici evocazioni, mentre c’è certezza sugli aiuti pubblici di cui i partiti già dispongono: dall’accesso alla cassa integrazione per i dipendenti licenziati alle agevolazioni fiscali per la contribuzione volontaria.
Sufficiente assistere al dibattito interno alla Lega tra Tosi e Salvini, dove il secondo minaccia di mettere fuori dal partito chi non sta con Zaia, tra Renzi e la sinistra DEM, tra Berlusconi e Fitto, tra Grillo e un nutrito numero di cittadini deputati… per rendersi conto che la democrazia interna è una nozione poco chiara all’interno dei partiti. Poco diffuso è il rispetto delle minoranze e dei dissidenti, rispetto alla linea espressa dal vertice; linea che il più delle volte non è elaborata all’interno del partito ma semplicemente calata dall’alto su tutto il partito. Roba da far impallidire il centralismo democratico del mitico PCI.
In ogni caso, sul piano giuridico i partiti continuano a essere semplici “libere associazioni”; per la precisione associazioni non riconosciute regolate dal codice civile (art. 36 e successivi), senza personalità giuridica. Nella categoria delle associazioni non riconosciute rientrano i circoli ricreativi e culturali, ma anche organismi complessi dotati di ampi mezzi finanziari, spesso pubblici, come i partiti.
Il costo globale del nuovo meccanismo di finanziamento è definito in 91 milioni di euro, vale a dire lo stesso costo previsto dalla precedente normativa del 2012.
In caso di controversie sulle decisioni della Commissione, il giudice esclusivo è quello amministrativo; mentre per le eventuali sanzioni comminate il giudice è quello ordinario. E già non è chiaro il perché di questa ripartizione, anziché optare per una più lineare soluzione unitaria. Questa spartizione delle competenze non aiuterà la chiarezza e la certezza del diritto, e non faciliterà nemmeno la formazione di una giurisprudenza uniforme. Il contenzioso potrà persino esserci tra la Commissione che ammette un partito al Registro Nazionale sulla base dei controlli formali, il giudice amministrativo e il giudice ordinario che dispone la nullità dello statuto stesso.
In qualche modo, con una tortuosa procedura, per legittimare l’accesso a risorse pubbliche è stata approvata una normativa che mette al centro una parvenza di democraticità nei partiti e genera l’impressione che sia stato attuato l’articolo 49 della Costituzione, ma in tutto ciò non è difficile scorgere la resistenza dei partiti all’introduzione di discipline che comportino un effettivo controllo sulla vita interna dei partiti stessi. A metà 2013, il Parlamento ha lasciato cadere le proposte in discussione per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per poi a distanza di pochi mesi riprendere questo tema in modo confuso all’interno della riforma del regime di finanziamenti ai partiti nella discussione per la conversione in legge del decreto 149 del dicembre 2013 che aveva per tema “Abolizione del finanziamento pubblico diretto”.
Se solo dopo anni dalle elezioni si arriva a una verifica sulla correttezza delle firme raccolte per essere ammessi alla competizione elettorale (vedi il caso Piemonte, per fare un solo esempio), figuriamoci con quale tempismo si verificherà la correttezza nella designazione delle candidature o nei processi deliberativi o nella democrazia… tutto resta come prima. Compito della Commissione è verificare che lo Statuto contenga quanto previsto per legge per deliberare l’accesso a finanziamenti e benefici. Questo è quel che realmente interessa, mentre il resto continuerà a non avere alcun peso.
I partiti continuano ad avere una difficoltà di identità e ciò contribuisce ad alimentare la sfiducia nei partiti.
Ogni contrapposizione politica, ieri tra berlusconiani e anti-berlusconiani, oggi tra renziani e anti-renziani, è strumentale a nascondere le reali responsabilità di ogni forza politica nella elaborazione di proposte politiche efficaci in grado di risolvere i problemi di sempre che così si sono ingigantiti.
Periodicamente torniamo sempre sugli stessi problemi e si alimenta l’illusione che con la nuova riforma tutto andrà meglio, salvo dopo un paio di anni ritornare sulla stessa riforma per riformarla. Riforme in questi decenni ne abbiamo avute tantissime, ma i problemi sono tutti lì che ci guardano impietosamente. Non servono le riforme, ma le riforme efficaci, fatte bene, pensate partendo dalla effettiva realtà dei problemi e non per poter dire “abbiamo fatto”; per questo bastava tenersi la Gelmini, bravissima a elencare le magnifiche riforme del governo Berlusconi.
L’altissimo debito pubblico, la crisi economica e del sistema produttivo senza una prospettiva di uscita, la sfiducia sempre più alta verso i partiti, il dilagare della corruzione e la costante “occupazione” per mano dei partiti delle Istituzioni, del sistema informativo e finanziario, delle aziende pubbliche… sono i frutti dell’azione delle forze politiche che si sono alternate al governo del paese. La dilagante corruzione, con il costante coinvolgimento di uomini di partito (la cui selezione è esclusiva responsabilità dei partiti), dovrebbe indurre una classe politica nuova e “discontinua” a superare gli indugi che, con mille sofismi privi di pregio, hanno sinora impedito l’approvazione di una disciplina legale dei partiti organica e rigorosa.
I partiti, dai connotati marcatamente personalistici, sono sempre più dominati da ristrette cerchie di persone, con la tendenza a escludere tutti coloro che non si uniformano. Il patto del Nazareno e il modo in cui è stato imposto al partito il risultato degli accordi conclusi tra due persone sono un chiaro sintomo di quanto i partiti siano oggi incapaci di elaborazione politica, diventando particolarmente permeabili alle lobby economiche, ai comitati d’affari che spadroneggiano a livello locale e nazionale, a lestofanti e opportunisti che vedono nella politica la facile soluzione ai personali problemi occupazionali.
Il ruolo decisivo dei partiti e la perdurante sfiducia e incapacità di proporre soluzioni adeguate dovrebbero suggerire una rigorosa disciplina legale che ancori i partiti a elevati standard di democrazia interna e trasparenza nei processi decisionali.
Se un imprenditore avesse gestito allegramente i soldi dell’azienda, distratto le risorse economiche e sperperato i soldini in attività private e personali, come hanno fatto tanti partiti, sarebbe rinviato a giudizio per bancarotta fraudolente, invece noi diamo ai partiti fondi pubblici per garantire la cassa integrazione dopo che hanno sperperato ingenti somme.
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Da Piccoli a Letta: 40 anni di finanziamento pubblico ai partiti