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Liberi di decidere

Eutanasia, 70 testimonial per chiedere la discussione in Parlamento

Mai più un caso Eluana, si disse all’inizio del 2009. Sono passati quasi sei anni e non è successo nulla.

Con il termine eutanasia si fa spesso riferimento a un insieme di situazioni profondamente diverse: testamento biologico, libertà terapeutica, terapia del dolore, suicidio assistito… La confusione è totale, nonostante sia ben definito l’ambito della legittimità medica.

Succede così che qualcuno viva un calvario inaudito e altri trovino un medico consenziente e risolvano il problema nel limbo del si fa ma non si dice.

Inviolabilità e indisponibilità della vita, che significa?

Molti assumono consapevolmente comportamenti con i quali dispongono della propria vita, mettendosi coscientemente a rischio di morte.

Senza dubbio è inviolabile la vita altrui, ma come si può affermare che la propria vita sia indisponibile e inviolabile?

Indisponibilità della vita è un concetto assolutamente lecito, ma

irrilevante sul piano giuridico perché assente nella nostra Costituzione, nel nostro ordinamento e nella dottrina giuridica che sul punto si è espressa con chiarezza già nel 1990 (Corte Costituzionale sentenza n. 471 del 1990);

valido per scelta individuale e non erga omnes;

discutibile sul piano culturale, etico e filosofico perché assume come assoluto un punto di vista relativo; dispone della vita lo Stato, quando applica la pena capitale o manda i cittadini in guerra;

astratto e impalpabile, bisognerebbe almeno aggiungere il termine “altrui”; indisponibilità della vita altrui, poiché ciascuno della vita ogni giorno dispone, consapevolmente e inconsapevolmente.

Comprendo le ragioni di chi afferma l’indisponibilità della vita, ma tale affermazione ha valore solo per chi la esprime, all’interno di quel sistema di valori al quale ha deciso di conformare la propria esistenza; non può valere per tutti perché ciascuno ha il diritto di vivere la propria esistenza con riferimento al sistema di valori che reputa più opportuno, con l’unico vincolo di non calpestare i diritti e le libertà altrui.

Se ripercorriamo l’iter giudiziario che condusse alle sentenze sui casi Eluana e Welby e sulla diagnosi pre-impianto restiamo interdetti per il puntuale e corposo riferimento a norme presenti nel nostro ordinamento (costituzionale, civile e penale), nel diritto comunitario e internazionale.

Un conto è il diritto già sancito dal nostro ordinamento (da quello comunitario e internazionale) alla scelta sui trattamenti sanitari, altra cosa è l’eutanasia.

C’è un bel sostenere che nel nostro ordinamento mancherebbe un quadro normativo di riferimento, o che la magistratura invade il campo proprio del legislatore quando, invece, il nostro ordinamento consente di dirimere i casi più complessi della vita, del nascere e del morire.

Il principio del consenso informato e gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione consentono, legittimano e sostanziano le decisioni espresse con le citate sentenze. Nessun ruolo di supplenza dei giudici, dunque. Nessuno sconfinamento, nessun attentato alla vita. Semplice applicazione del diritto, leggendo il diritto per quello che è e non per quel che qualcuno vorrebbe che fosse.

La materia, delicata e complessa, è ampiamente regolamentata e tutto andrebbe ricondotto alla reale dimensione senza caricarla di significati e valenze.

Abbiamo la Costituzione che afferma il principio di autodeterminazione; la salute è un diritto, ma non un obbligo, ed è ovvio che il diritto alla vita, costituzionalmente tutelato, è la premessa per il godimento di ogni successivo diritto (che senza la vita non potrebbe essere esercitato), ma ciò non si traduce in obbligo a vivere e la consolidata giurisprudenza riconosce che il rifiuto di qualsiasi trattamento sanitario, anche quando da questo rifiuto dovesse derivare la morte, è compatibile con il diritto alla vita nel rispetto del principio fondamentale di autodeterminazione individuale. Questo nostro principio Costituzionale è presente in tutta la normativa europea.

Abbiamo la legge del 1978, che ha istituito il servizio sanitario nazionale, la quale afferma che la legittimità dell’agire medico si fonda sul consenso informato. Anche questo è un principio ben presente nella normativa europea.

Le nostre leggi prevedono che anche in caso di incapacità del paziente sia ricomposto il rapporto duale medico-paziente perché ogni trattamento sia legittimato dal consenso.

Abbiamo il codice civile che prevede la figura del tutore; e il legislatore ha posto come unico limite alla capacità di agire del tutore quello di tutelare l’interesse del tutelato, interesse che non si esaurisce negli aspetti patrimoniali ma investe la sfera del rispetto della personalità del tutelato.

Abbiamo la figura del curatore speciale che, su mandato di un giudice, vigila sull’operato del tutore.

Abbiamo la legge n. 6 del 2004 che ha introdotto la figura dell’amministratore di sostegno; questa legge è stata più volte utilizzata per negare il consenso a trattamenti specifici nella consapevolezza che questo rifiuto avrebbe portato a conclusione il decorso della patologia con la morte del paziente.

Una legge sul testamento biologico consentirebbe di risolvere tutte quelle situazioni che periodicamente le cronache giornalistiche ci rappresentano, colmando i vuoti normativi che da troppi anni producono il ricorso alla clandestinità o lunghe battaglie giudiziarie; i vuoti espongono poi il medico a rischio di accertamenti sia di carattere professionale sia di carattere penale.

In base al nostro ordinamento e alla nostra civiltà giuridica, il medico è tenuto a non fare ciò che il paziente non desidera. La legittimazione dell’agire medico si basa sul consenso espressamente dato dal paziente riguardo a ogni trattamento: questo è un punto fermo del nostro ordinamento (Costituzione, legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, senza bisogno di scomodare UE e ONU). Fuori da tale ambito di consenso l’agire del medico configura una violazione dei diritti dell’individuo.

Il diritto di cura non comporta l’obbligo di curarsi.

Il diritto di rifiutare una tecnica o una cura, il diritto di decidere come andare incontro agli eventi della vita, la libertà di lasciare che la malattia faccia il suo decorso naturale senza subire l’invasione della tecnica… non c’entra nulla con l’eutanasia, attiva o passiva che dir si voglia, l’omicidio o il suicidio assistito.

Altro tema è invece il darsi la morte, il suicidio, l’eutanasia in senso stretto, il suicidio assistito.

Paradossalmente è improprio parlare di diritto di morire poiché nessuno può essere privato della morte… si dovrebbe parlare di diritto di scegliere sulla propria vita.

La vita non è il contrario della morte; la vita è il tempo che trascorre tra la nascita e la morte, rispettivamente inizio e fine della vita.

La vita è quindi come una partita a un qualsiasi gioco, con la differenza che ciascuno di noi è convocato a iniziare a giocare senza aver espresso tale volontà, senza essersi iscritto a una federazione, torneo…

La vita ci è data, potremo decidere cosa farcene, come succede con ogni dono?

La vita è progetto, e la morte appare assurda perché non può essere oggetto di alcun progetto. Ma che faccio della vita se insistentemente avverto la mancanza di progettualità, la sensazione di non avere carte da giocare…?

E’ la depressione, l’infelicità del vivere… male diffuso sempre più laddove il benessere ci consente di soddisfare i bisogni primari. Dove si muore di fame, si muore poco di suicidio.

Il tema è ostico, complesso, poco adatto a questo spazio ma, senza fare apologia del suicidio, possiamo tentare di comprendere quel mondo di pensieri e di disagio che talvolta conduce alla scelta estrema del suicidio, spesso consumato in solitudine, lasciando attoniti i familiari che mai avevano percepito una così forte sofferenza.

Sono convinto che se si parlasse di suicidio con più razionalità e pacatezza… forse si aiuterebbe qualcuno a ritrovare amore e interesse per la vita; talvolta questo avviene quando si parla di rifiuto della maternità.

Una società civile aiuta a chiedere aiuto, senza giudicare, biasimare, irridere, condannare… Riflettiamo, una donna può partorire in anonimato, eppure succede frequentemente che un bambino sia ucciso o abbandonato invece di esercitare un fondamentale diritto. E’ solo per ignoranza dei propri diritti o per il timore del giudizio degli occhi del mondo?

I diritti umani non sono categorie statiche, mutano col mutare delle condizioni storiche e politiche e dipendono direttamente dalle rivendicazioni che costantemente avanzano gruppi di cittadini o movimenti a vario titolo formatisi nella società.

La rivendicazione di certi diritti è una conseguenza dei rapporti di potere tra uomini, dell’evoluzione tecnologica, della crescita culturale, della maggiore consapevolezza di sé, che ha soprattutto chi vive in condizioni più agiate. Chi muore di fame poco si preoccupa del diritto alla privacy…

La società civile rivendica nuovi diritti anche per rispondere alle nuove minacce che provengono dalla società. Pensiamo al diritto ambientale, per esempio. O alle leggi che tutelano dallo strapotere tecnologico.
La nostra società, sempre più complessa e tecnologica, ha generato la necessità di definire in modo specifico i nuovi diritti che nel tempo si sono affermati.
Chi si occupava una volta di come e dove si costruiva una casa e come riscaldarla?
Oggi quel mondo non esiste più, almeno nel nostro mondo occidentale.

Pretendere che un sistema di valori sia l’ispiratore di un sistema di leggi significa aprire la strada a uno Stato etico, totalitario, tecnocratico in cui non c’è più spazio per l’individuo e le sue libertà di agire e sentire.

Nessuno ha il monopolio dell’etica; l’etica è, infatti, un prodotto di una determinata concezione della vita; ne consegue che da diverse concezioni della vita discendono diverse etiche, diversi modi di rapportarsi alla vita, ai problemi del vivere, inclusi i problemi del fine vita, al dolore, alla sofferenza, al decorso naturale degli eventi.

Se accettiamo il pluralismo culturale e la libertà individuale di rapportarsi ai problemi della vita, se ci riconosciamo nel diritto di autodeterminazione, in forza di quale principio di civile convivenza possiamo pensare d’imporre a tutti la propria visione della vita?

C’è chi sostiene che poiché un determinato comportamento sarebbe contrario alle leggi divine allora debba essere impedito per legge. Insomma, “io non lo farei, tu non lo devi fare”.
L’etica imposta per legge.
Soluzione poco etica.
Nella possibilità di scelta c’è etica, nell’imperio della legge c’è costrizione, non certo etica.
L’etica non si afferma con i carabinieri.

Quando la cultura, la religione, la filosofia, l’etica, la politica… sono divise e le divisioni conducono alla negazione del diritto di autodeterminazione, allora la soluzione sta solo nel lasciare la parola definitiva al diretto interessato. E ciascuno ha diritto di cittadinanza con pari dignità.

One thought on “Liberi di decidere

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