Molti assumono consapevolmente comportamenti con i quali dispongono della propria vita, mettendosi coscientemente a rischio di morte.
So bene che il valore etico, religioso, filosofico che si attribuisce alla formulazione “inviolabilità e indisponibilità della vita” va oltre il concetto di disporre della vita mettendola a rischio, però il confine è sottile.
Senza dubbio è inviolabile la vita altrui, ma come si può affermare che la propria vita sia indisponibile e inviolabile?
E’ una affermazione di nessuna rilevanza giuridica e fattuale, che fa a pugni con la quotidianità della vita reale in cui molti dispongono senza limiti della propria vita.
Indisponibilità della vita è un concetto, frutto di una determinata concezione della vita, assolutamente lecito ma
– irrilevante sul piano giuridico, assente dalla nostra Costituzione, dal nostro ordinamento e dalla dottrina giuridica che sul punto si è espressa con chiarezza già nel 1990 (Corte Costituzionale sentenza n. 471 del 1990);
– valido per scelta individuale e non erga omnes;
– culturalmente, eticamente e filosoficamente discutibile perché assume come assoluto un punto di vista relativo;
– arbitrario perché sul piano logico e materiale è privo di valore; bisognerebbe almeno aggiungere il termine “altrui”; indisponibilità della vita altrui.
La vita è un diritto e in quanto tale va tutelata, perché premessa per il godimento di ogni ulteriore diritto, ma come per ogni diritto se ne dispone.
Comprendo le ragioni di chi afferma l’indisponibilità della vita, ma tale affermazione ha valore solo per chi la esprime, all’interno di quel sistema di valori al quale ha deciso di conformare la propria esistenza; non può valere per tutti perché ciascuno ha il diritto di vivere la propria esistenza con riferimento al sistema di valori che reputa più idoneo, con l’unico vincolo di non calpestare i diritti e le libertà altrui.
Pretendere che un sistema di valori sia l’ispiratore di un ordinamento giuridico significa aprire la strada a uno Stato etico, totalitario, tecnocratico in cui non c’è più spazio per l’individuo e le sue libertà di agire e sentire.
Parlare alle coscienze è un diritto fondamentale che non deve essere negato, vilipeso, deriso, limitato se svolto nel rispetto dei diritti altrui e della civile convivenza. Però l’etica non va confusa con il diritto.
In base al nostro ordinamento e alla nostra civiltà giuridica, il medico è tenuto a non fare ciò che il paziente non desidera. Non può porre in essere prestazioni non autorizzate. La legittimazione dell’agire medico si basa sul consenso espressamente dato dal paziente riguardo a ogni trattamento: questo è un punto fermo del nostro ordinamento (Costituzione, legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, senza bisogno di scomodare UE e ONU). Fuori da tale ambito di consenso l’agire del medico configura una violazione dei diritti dell’individuo.
Il diritto di cura non comporta l’obbligo di curarsi.
Il diritto di rifiutare una tecnica o una cura, il diritto di decidere come andare incontro agli eventi della vita, la libertà di lasciare che la malattia faccia il suo decorso naturale senza subire l’invasione della tecnica… non c’entra nulla con l’eutanasia, attiva o passiva che dir si voglia, l’omicidio o il suicidio assistito o del consenziente.
Il nostro ordinamento contempla il diritto individuale di decidere come intendere la propria vita e come rapportarsi agli eventi della vita.
E’ pienamente compatibile con il diritto alla vita l’idea di lasciar fare il proprio corso alla natura e al decorso biologico degli eventi, fino alle estreme conseguenze.
Il nostro ordinamento riconosce il diritto di decidere quali trattamenti seguire e quali rifiutare, indipendentemente dalle conseguenze e a condizione che ci sia consapevolezza sulle conseguenze.
Il nostro ordinamento prevede anche la figura del tutore, dell’amministratore di sostegno e del giudice tutelare perché anche le persone incapaci possano affermare la propria volontà.
Se in situazione di emergenza un medico, autonomamente e senza consenso informato, decide su un trattamento cui sottopone il paziente, non potrà che essere il medico medesimo a porre fine a quel trattamento qualora l’interessato o il suo tutore (eventualmente sorretto da autorizzazione giudiziaria) neghino quel consenso che non era stato preventivamente rilasciato. Ed è sempre riconosciuto il diritto di modificare in ogni momento il consenso dato.
La legge sull’amministratore di sostegno è stata più volte utilizzata proprio per negare il consenso a interventi chirurgici ritenuti indispensabili per mantenere in vita il paziente.
Se cominciassimo a decidere che taluni trattamenti non possono essere rifiutati perché vitali, domani si potrebbe affermare l’obbligatorietà di sottoporsi a un trapianto, una mutilazione… per mantenersi in vita. Che fine farebbe la libertà individuale?
Le conquiste liberali e democratiche ci portano ad affermare il diritto individuale di decidere come intendere la propria vita e come rapportarsi agli eventi della vita.
I diritti umani non sono categorie statiche, mutano col mutare delle condizioni storiche e politiche e dipendono direttamente dalle rivendicazioni che costantemente avanzano gruppi di cittadini o movimenti a vario titolo formatisi nella società.
La rivendicazione di certi diritti è una conseguenza dei rapporti di potere tra uomini, dell’evoluzione tecnologica, della crescita culturale, della maggiore consapevolezza di sé che ha soprattutto chi vive in condizioni più agiate. Chi muore di fame poco si preoccupa del diritto alla privacy…
La società civile rivendica nuovi diritti anche per rispondere alle nuove minacce che provengono della società. Pensiamo al diritto ambientale, per esempio. O alle leggi che tutelano dallo strapotere tecnologico.
La nostra società sempre più complessa e tecnologica ha prodotto una iper-specializzazione che ha generato la necessità di definire in modo specifico i nuovi diritti che nel tempo si sono affermati.
Chi si occupava una volta di come e dove si costruiva una casa e come riscaldarla? Oggi quel mondo non esiste più, almeno nel nostro mondo occidentale.
Un individuo ha il diritto di rifiutare un trattamento medico?
Un individuo ha il diritto di accettare qualche trattamento e rifiutarne altri?
Il nostro ordinamento conduce a una sola risposta: SI e occorre rispettare la volontà del paziente.
Qualcuno dirà che quanto espresso in una determinata condizione fisica e in un determinato momento potrebbe mutare col variare della condizione fisica e del momento.
Verissimo, ma ciò vale per ogni volontà espressa: finché una persona non pronuncia il fatidico “sì” la sua volontà di sposarsi con quella persona è solo una volontà.
Le volontà prendono corpo nella realizzazione delle decisioni. Se manca la possibilità di realizzare le decisioni dobbiamo prendere atto delle volontà espresse, fino a prova contraria.
Dobbiamo parlare esclusivamente di scelta dell’individuo sulla base delle proprie valutazioni e volontà espresse.
La decisione non può che essere individuale; è giusto che l’individuo sia posto di fronte alle sollecitazioni che arrivano dai diversi punti di vista (clinico, etico, religioso…), ma alla fine spetta a lui la decisione. Sulla terapia come sulla sospensione della terapia.
Ritengo sbagliato confondere l’aspetto giuridico con quello etico o religioso; altrettanto sbagliato considero l’idea di imporre a tutti un determinato convincimento etico.
Nel 2004, con legge n 6, è stata introdotta in Italia la figura dell’amministratore di sostegno. Sulla base di questa legge e di tutta la copiosa normativa costituzionale e di diritto civile il giudice di Modena autorizzò l’amministratore di sostegno a negare, nel caso, l’autorizzazione a effettuare la tracheotomia a una donna sofferente la quale, in assenza di tale intervento, sarebbe andata incontro a morte certa.
Questo decreto è possibile leggerlo qui e vale la pena leggerlo, è molto istruttivo; in particolare, in un passaggio, eccolo:
“E non è improprio osservare, di fronte all’utilizzo così confuso e improprio del termine eutanasia nell’attuale dibattito italiano, che nessuno dei vari casi su cui oggi si controverte è riferibile a quella fattispecie, che è la sola ragionevolmente appropriata, introdotta e regolamentata dagli ordinamenti olandese e belga che hanno legittimato l’accelerazione del percorso biologico naturale per la persona capace di intendere e volere, che, affetta da sofferenze insopportabili e senza prospettive di miglioramento, chiede le venga praticato un farmaco mortale, se non in grado di autosomministrarselo, ovvero ( e si parla, nell’ipotesi, di suicidio assistito) di fornirglielo in modo che possa assumerlo. Rientrano, all’opposto, nel diritto, allo stato dell’ordinamento già compiutamente ed esaurientemente tutelato dagli art. 2,13 e 32 Cost., di autodeterminazione della persona al rispetto del percorso biologico naturale il caso del capace che rifiuti o chieda di interrompere un trattamento salvifico”.
Se ripercorriamo l’iter giudiziario che portarono alle sentenze sui casi Eluana e Welby e sulla diagnosi pre-impianto restiamo interdetti per il puntuale e corposo riferimento a norme presenti nel nostro ordinamento (costituzionale, civile e penale), nel diritto comunitario e internazionale.
Se si cominciasse a chiamare le cose con il loro nome, si sgombrerebbe il campo da inutili proclami ideologici.
Un conto è il diritto già sancito dal nostro ordinamento (da quello comunitario e internazionale) alla scelta sui trattamenti sanitari, altra cosa è l’eutanasia.
C’è un bel sostenere che nel nostro ordinamento mancherebbe un quadro normativo di riferimento, o che la magistratura invade il campo proprio del legislatore quando, invece, il nostro ordinamento consente di dirimere i casi più complessi della vita, del nascere e del morire.
Il principio del consenso informato e gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione consentono, legittimano e sostanziano le decisioni espresse con le citate sentenze. Nessun ruolo di supplenza dei giudici, dunque. Nessuno sconfinamento, nessun attentato alla vita. Semplice applicazione del diritto, leggendo il diritto per quello che è e non per quel che qualcuno vorrebbe che fosse, senza strappi al nostro ordinamento giuridico o ai valori etici.
Chi per ragioni etiche o convincimenti religiosi non vuole avvalersi dei diritti riconosciuti dalla Costituzione è liberissimo di farlo, ma nessuno può pretendere che quelle norme siano disattese e violate per ossequio a qualche astratto dettato etico o religioso.
Il problema si pone quando la persona soggetta a trattamenti di mantenimento in vita non è cosciente e quindi non può esprimere la sua volontà. In questi casi, può tornare utile la legge n 6/2004 ma comporta la necessità di ricostruire quale fosse l’orientamento e la volontà del paziente prima di entrare in uno stato di incapacità. Bene farebbe il legislatore ad armonizzare le norme esistenti e a colmare i vuoti con una legge sul testamento biologico e chiarendo i limiti della responsabilità del medico, già circoscritte nell’ambito del consenso informato. In caso contrario, il legislatore disattende la sua funzione, ma non potrà pretendere che il giudice si astenga dall’esercizio delle sue funzioni. Il giudice non può decidere di non decidere se è investito da una richiesta di soluzione di un conflitto.
La materia è ampiamente regolamentata, lasciando però vuoti alcuni aspetti che, per colmarli, rendono necessario o il ricorso alla clandestinità o lunghe battaglie giudiziarie; i vuoti espongono poi il medico a rischio di accertamenti sia di carattere professionale sia di carattere penale.
Abbiamo la Costituzione che afferma il principio di autodeterminazione; la salute è un diritto ma non un obbligo, ed è ovvio che il diritto alla vita, costituzionalmente tutelato, è la premessa per il godimento di ogni successivo diritto (che senza la vita non potrebbe essere esercitato) ma ciò non si traduce in obbligo a vivere e la consolidata giurisprudenza riconosce che il rifiuto di qualsiasi trattamento sanitario, anche quando da questo rifiuto dovesse derivare la morte, è compatibile con il diritto alla vita nel rispetto del principio fondamentale di autodeterminazione individuale. Questo nostro principio Costituzionale è presente in tutta la normativa europea.
Abbiamo la legge del 1978, che ha istituito il servizio sanitario nazionale, la quale afferma che la legittimità dell’agire medico si fonda sul consenso informato; il consenso può essere negato in qualsiasi momento. Anche questo è un principio ben presente nella normativa europea.
Le nostre leggi prevedono che anche in caso di incapacità del paziente sia ricomposto il rapporto duale medico-paziente perché ogni trattamento sia legittimato dal consenso.
Abbiamo il codice civile che prevede la figura del tutore; e il legislatore ha posto come unico limite alla capacità di agire del tutore quello di tutelare l’interesse del tutelato, interesse che non si esaurisce negli aspetti patrimoniali ma investe la sfera del rispetto della personalità del tutelato.
Abbiamo la figura del curatore speciale che, su mandato di un giudice, vigila sull’operato del tutore.
Abbiamo la legge n 6 del 2004 che ha introdotto la figura dell’amministratore di sostegno; questa legge è stata più volte utilizzata per negare il consenso a trattamenti specifici nella consapevolezza che questo rifiuto avrebbe portato a conclusione il decorso della patologia con la morte del paziente.
In questo quadro estremamente articolato, con provvedimenti legislativi approvati da maggioranze differenti nel corso dei decenni e tutti coerenti con i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione e dalla normativa comunitaria, una legge nuova serve solo se
– rispetta i principi costituzionali del pluralismo culturale e dell’autodeterminazione individuale;
– consente di accertare la volontà dell’interessato (testamento biologico), evitando un calvario giudiziario che si somma a quello umano;
– evita rischi per i medici che si trovano a rispettare la volontà del paziente.
In caso contrario meglio che il legislatore non faccia nulla continuando nel silenzio tombale e nell’indifferenza in cui si è prodotto in tutti questi anni.
Sin qui sul piano legislativo e giuridico, poi c’è l’aspetto etico.
Nessuno ha il monopolio di Dio, del modo d’intendere la spiritualità e la religiosità; infatti, nel mondo esistono molte espressioni religiose e molti modi d’intendere Dio. Ciascuna ha diritto di cittadinanza con pari dignità.
Nessuno ha il monopolio dell’etica; l’etica è, infatti, un prodotto di una determinata concezione della vita; ne consegue che da diverse concezioni della vita discendono diverse etiche, diversi modi di rapportarsi alla vita, ai problemi del vivere, inclusi i problemi del fine vita, al dolore, alla sofferenza, al decorso naturale degli eventi.
Questo è il punto.
Se accettiamo il pluralismo culturale e la libertà individuale di rapportarsi ai problemi della vita, se ci riconosciamo nel diritto di autodeterminazione, in forza di quale principio di civile convivenza possiamo pensare d’imporre a tutti la propria visione della vita?
C’è chi sostiene che poiché un determinato comportamento sarebbe contrario alle leggi divine allora debba essere impedito per legge. Insomma, “io non lo farei, tu non lo devi fare”.
L’etica imposta per legge. Soluzione molto poco etica.
Nella possibilità di scelta c’è etica, nell’imperio della legge c’è costrizione, non certo etica.
L’etica non si afferma con i carabinieri.
Quando la cultura, la religione, la filosofia, l’etica, la politica… sono divise e le divisioni conducono alla negazione del diritto di autodeterminazione, allora la soluzione sta solo nel lasciare la parola definitiva al diretto interessato. Questo, ovviamente, quando la propria etica non è in contrasto con l’interesse della collettività.