L’Euro serve alla Germania?
Si sente da tempo l’affermazione che l’Euro serva alla Germania, ma non agli altri Paesi europei e soprattutto non serve all’Italia; anzi per l’Italia sarebbe il principale problema.
Le cose stanno realmente così?
Il valore dell’Euro fu definito sulla base dei valori di mercato al 31 dicembre 1998 delle valute da convertire dei primi 11 Paesi aderenti alla valuta unica. I valori di conversione tra Lira e Marco sono i seguenti
1 euro = 1936,27 lire italiane
1 euro = 1,95583 marco tedesco
1 marco = 990 lire
Si dice che fu una conversione svantaggiosa per l’Italia, ma se analizziamo l’andamento del cambio lira\marco dei due anni precedenti (1 gen 1997 – 31 dic 1998) verifichiamo con facilità che il valore medio di cambio era 985 lire, il valore massimo di periodo è stato 998 lire (marzo 1997), il valore minimo è stato 973 lire (luglio 1997).
La media del 1998 è stata di 987 lire.
Il cambio a 990 lire è stato quindi corretto e persino vantaggioso per l’Italia poiché avveniva sui valori massimi di periodo. Se prendiamo come riferimento il periodo precedente il 1997 e andiamo indietro sino al fatidico ottobre 1992 (l’Italia uscì dallo SME nel settembre del 1992) notiamo che il valore medio è stato di 1.018 lire, con un valore minimo di 859 lire e un valore massimo di 1.240 lire: questa impennata del Marco è stata l’effetto della svalutazione della Lira uscendo dallo SME. La riscontriamo, infatti, anche nel rapporto con il Franco francese: dal minimo di 254 lire al massimo di 353 lire, con un valore medio da ottobre 1992 a dicembre 1996 di 297 lire per un franco francese. Ancora più forte l’apprezzamento del Franco svizzero sulla lira.
Attenzione a non cadere nella trappola di pensare che l’uscita dall’Euro provocherebbe come conseguenza quel che successe con l’uscita dallo SME.
Le cose non stanno così.
L’accordo monetario noto come SME prevedeva una limitazione nella oscillazione della valuta rispetto alle altre del sistema monetario europeo; uscendo dallo SME siamo stati liberi di fluttuare in libertà, ma i danni per il sistema Paese e la credibilità sui mercati finanziari sono stati limitati da una ferrea politica di austerità: prelievo sui conti correnti, riforma Amato sulle pensioni, contenimento rigidissimo dei salari… e nonostante questo il debito pubblico crebbe del 20% in soli due anni.
La domanda quindi è: potremmo permetterci un ulteriore periodo di rigore uscendo dall’Euro e dopo questi anni di crisi?
Per comprendere meglio la portata del problema occorre pensare a coloro che all’epoca dell’uscita dallo SME avevano un mutuo in ECU: dovevano restituire ECU e con la lira svalutata si ritrovarono in breve tempo con una rata cresciuta intorno al 30%. Oggi tutti coloro che hanno un mutuo (o un semplice finanziamento) dovrebbero restituire Euro… che succederebbe della loro rata? Riuscite a rispondere o avete bisogno di un aiutino?
Torniamo a chi ha avuto vantaggi dall’introduzione dell’Euro.
Se Francia e Germania hanno goduto nelle loro esportazioni grazie al cambio fisso che ha permesso di eliminare la concorrenza commerciale effettuata con la svalutazione competitiva, l’Italia ha avuto il vantaggio di un abbattimento dei tassi d’interesse sul debito pubblico. Non solo, il costo del denaro è sceso notevolmente, ma questo invece di favorire gli investimenti e le riforme strutturali ha stimolato il continuo ricorso all’indebitamento… tanto il denaro costa poco e ci sono tante clientele da accontentare. Così nel periodo del primo decennio Euro 1999-2008 il nostro debito pubblico è diminuito pochissimo e oggi che avremmo bisogno di allargare i cordoni siamo in difficoltà perché lo spread è sempre in agguato.
Va considerato che per i mercati internazionali l’unione monetaria è un fatto nominalistico poiché ogni Stato risponde del proprio debito pubblico: comprare titoli di Stato tedeschi o italiani non è la stessa cosa per i mercati finanziari che valutano ovviamente il rischio Paese. In realtà per i mercati esiste l’Euro tedesco, quello italiano, francese, spagnolo…
La svalutazione monetaria del 1992 e le politiche finanziarie che seguirono provocarono una crescita del debito pubblico del 20% circa nel solo periodo 93-95: da 105% del 1992 si passò al 121% nel 1995 e nel 1990 eravamo ancora al 95% sul PIL. Si tratta in realtà del rafforzamento di un trend che viene da lontano: nel 1980 il debito pubblico era attestato intorno al 60% del PIL.
Cosa ha prodotto in un arco di tempo limitato una crescita del debito pubblico che non ha confronti con il resto d’Europa?
Le cause vanno ricercate in un complesso di fattori: gli interessi sul debito, la mancanza di crescita economica, l’inefficienza della macchina burocratica statale, la corruzione.
Se vanno in scadenza i titoli di Stato e occorre finanziarsi sui mercati per rimborsare lo scaduto e per trovare finanziatori occorre alzare il tasso d’interesse inevitabilmente il debito cresce. Tra il 1984 e il 1992 la spesa per interessi crebbe dall’8% all’11% del PIL (nello stesso periodo i Paesi dell’eurozona passavano dal 3,5% al 4,4%). Nel 1993 la nostra spesa in interessi sul debito pubblico schizza al 13% del PIL mentre l’eurozona si mantiene al 4,4%.
Se avessimo immesso moneta anziché titoli di Stato, avremmo provocato l’esplosione dell’inflazione e innescato il circolo vizioso inflazione-aumento dei costi-inflazione. Nel 1980 l’inflazione viaggia intorno al 20%. Per capire il peso dell’inflazione tenete presente che 1 lira del 31 dicembre 1969 se oggi vale 19 lire ha solo mantenuto il proprio valore d’acquisto!
Se oggi al bar pagate un caffè 1,20 euro è come se nel 1992 al netto dell’inflazione lo aveste pagato 0,68 euro, vale a dire 1.316 lire (in Lombardia allora costava tra 1.200 e 1.400 lire). Se imparassimo a ragionare valutando i costi al netto dell’inflazione ci renderemmo conto che l’effetto euro sui prezzi c’è stato, ma è stato di gran lunga inferiore a quello che ci raccontiamo. Il passaggio dalla lira all’euro ha favorito l’abitudine al continuo confronto con quanto costava un prodotto prima dell’euro, ma non conserviamo memoria di quanto costasse lo stesso prodotto dieci anni prima l’introduzione dell’euro.
Nel 1981 avviene il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.
Debito pubblico al posto di inflazione; questo avrebbe dovuto favorire una riduzione dei salari e una crescita degli investimenti e della produttività.
Si verificò solo la riduzione dei salari…
Dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso sino a oggi l’Italia è stata caratterizzata da una riduzione fortissima della quota dei salari sul reddito rispetto a quanto verificatosi negli altri Paesi europei e negli USA. Tra il 1991 e il 1997 la quota dei salari diminuisce di oltre 8 punti contro la media dei Paesi euro di soli 3 punti (Francia 2, Germania 1). La quota dei salari ovviamente comprende anche gli oneri sociali a carico del datore di lavoro. La brusca flessione registrata nei primi anni ’90 prosegue anche in questo caso un trend che inizia nel 1975.
In sostanza l’Italia è caratterizzata da bassi salari e bassa produttività.
L’Euro, garantendo stabilità monetaria, bassa inflazione, basso costo del denaro e riduzione degli interessi sul debito pubblico, è stato una formidabile occasione per l’Italia per promuovere le riforme strutturali a partire dalla riforma dello Stato, che con la sua elefantiaca macchina inefficiente è tra le prime cause della scarsa produttività e crescita italiana.
L’Italia non ha saputo cogliere questa occasione: non ha risolto l’inefficienza e il costo della burocrazia statale, alla quale ha aggiunto l’inefficienza delle Regioni, non ha contrastato la corruzione, ha favorito la criminalità e lo spreco attraverso le pratiche clientelari e consociative.
L’Euro ha molti difetti tutti dipendenti dalla incapacità e inconcludenza dei governi Italiani ed europei, tutti, nessuno escluso. Però alcuni governi nazionali hanno saputo cogliere le opportunità offerte dalla moneta unica, altri come quelli italiani non hanno saputo gestire nemmeno il passaggio dalla Lira all’Euro.
Chi condanna la burocrazia europea e l’Euro dimentica che non si tratta di calamità naturali, ma di risultati determinati dall’azione e dalle scelte dei governi europei, comprese quelle componenti del centro-destra che oggi urlano contro l’euro dopo non aver fatto nulla in tutti gli anni che sono stati al governo e aver negato l’esistenza stessa della crisi sino a fine 2011: i ristoranti sono tutti pieni e la colpa è del cambio lira-euro, affermava l’ineffabile presidente del consiglio Silvio Berlusconi .
L’uscita dall’Euro non è una soluzione: l’indebitamento, la disoccupazione, l’inefficienza statale, la corruzione endemica e il clientelismo… non sono prodotti dell’Europa o dell’Euro, ma della nostra Storia e della dabbenaggine di tutta la classe dirigente italiana, con in testa i partiti politici e le associazioni sindacali.
L’uscita dall’Euro comporterebbe solo problemi che nella situazione debole in cui siamo non potremmo gestire.
Aumento delle rate per mutui e finanziamenti.
Aumento della inflazione.
Aumento degli interessi sul debito pubblico.
Corsa agli sportelli bancari per ritirare il denaro.
Crollo degli investimenti esteri e nazionali: nella fase di incertezza e transizione chi si avventurerebbe a investire capitali in Italia?
Esportazione di capitali: l’uscita dall’euro darebbe un notevole vantaggio a chi legittimamente o no detiene capitali all’estero.
Il vantaggio che avremmo sulle esportazioni sarebbe assorbito dal maggior costo dei salari e delle materie prime che dovremmo continuare a importare.
Indefinito attacco dei mercati finanziari nella fase di uscita dall’Euro; pensate se si dovesse tenere un referendum per l’uscita dall’euro: data la durata dell’iter saremmo sotto scacco dei mercati internazionali sino all’esito del referendum.
La soluzione del problema è prendere atto del fallimento di una classe dirigente che ha creato le debolezze proprie dell’Euro e della Unione Europea e rilanciare il processo di unificazione per giungere al più presto alla federazione degli Stati Uniti d’Europa.
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