Da tempo si discute di violenza contro le donne; è stato pure coniato un agghiacciante termine: “femminicidio”. Il termine è vecchio di venti anni ed è giusto che lo si usi perché non si tratta di omicidi ma di persone uccise in quanto donne: un termine che indica un epilogo tragico dell’esercizio del potere maschilista che da sempre legittima la violenza sulle donne. La discriminazione di genere, la (in)cultura sessista necessita per essere contrastata di strumenti giuridici e repressivi ma non può risolversi in essi.
La violenza contro le donne, come ogni forma di discriminazione, affonda le radici in modelli culturali antichi e dominanti sino a ieri.
I profondi mutamenti sociali hanno rivoluzionato il ruolo della donna nella società e mandato in frantumi l’identità maschile imperniata nel ruolo del padre-padrone. Sono saltati i modelli interpersonali, gli uomini (intesi come maschi) sono travolti da una crisi identitaria e… anche le donne non scherzano.
Promuovere una nuova cultura del rispetto e della dignità dovrebbe essere l’esigenza avvertita da tutte le istituzioni, comprese scuola e famiglia.
Educare alla gestione dei conflitti, formare i giovani perché imparino che ci sono sempre soluzioni più efficaci della sberla, sia nel ruolo di partner sia nel ruolo di genitore: il problema è culturale e formativo. Vogliamo dedicare risorse perché le donne si liberino dall’idea che sono destinate a vivere nella paura?
L’autonomia giustamente rivendicata dalle donne confligge con un arcaico modello relazionale fondato sull’autorità del maschio che, da tempo in crisi, non riesce a ricomporre la propria identità e incolpa la donna per la propria frustrazione. Ma, ogni volta che un uomo usa violenza su una donna, abbiamo due vittime. Anche l’uomo è una vittima di una società, cultura, religione, politica, scuola, famiglia di provenienza che dopo averlo “intronato” lo ha rintronato privandolo del suo “status” senza educarlo e senza formarlo a un nuovo futuro di uguale tra uguali pur di sesso differente.
Vogliamo prenderci cura di quel che rimane di questo uomo? Vogliamo comprendere che il violento – oltre a una punizione – ha bisogno di cure?
Gli uomini che maltrattano le donne hanno bisogno di cure per aiutarli a ridefinire una identità e a orientarsi secondo una nuova griglia comportamentale basata su valori differenti da quelli ereditati.
Vogliamo avere consapevolezza del “da dove veniamo”?
Solo nel 1946 la donna in Italia conquista il diritto di voto e il Corriere della Sera (2 giugno 1946) raccomandava di recarsi al seggio senza rossetto sulle labbra. Non si tratta di un dato dovuto all’arretratezza dell’Italia, spesso scioccamente invocata. In tanti altri Paesi le donne non avevano diritti politici e continueranno ancora per anni a non averne; a livello internazionale solo nel 1948, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, è affermato il diritto di voto per le donne.
Nel 2013 ricorre il 50° anniversario dell’ingresso delle donne in magistratura: 1963, la legge n. 66 regolamentò “l’ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni”. Al primo concorso aperto alle donne risultarono idonee al posto di uditore giudiziario 8 candidate su 187.
In nome di un malinteso “senso della famiglia e dell’ordine pubblico” sono state tollerate violenze e discriminazioni.
Una cultura sessista e sessuofobica, integralista e bigotta ha prodotto nel tempo molte tragedie e infamie legislative, legittimando violenze e portando a ignorare quanti problemi e quali violenze si annidano nella tanto esaltata “coppia e famiglia tradizionale”.
Quando parliamo di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) bisogna tenere presente che siamo nel Capo IV (Dei delitti contro l’assistenza familiare) del Titolo XI (Dei Delitti contro la famiglia) del Libro II (Dei Delitti in particolare) del Codice Penale. La collocazione è fondamentale per comprendere il prezioso contributo dato negli anni dalla giurisprudenza, dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale occupandosi di famiglia.
L’interesse giuridicamente tutelato è, infatti, la famiglia; il maltrattamento lo subisce una persona. Fa riflettere la circostanza?
L’articolo 572 e tutta l’impostazione del codice penale risente dell’epoca fascista e della cultura conservatrice anteriore (codice Zanardelli), nonché di una impostazione morale ispirata dalla “religione di Stato”.
Il reato di maltrattamenti è inserito nella stessa area del codice penale che tutelava la famiglia punendo l’adulterio in modo differenziato in base al sesso del coniuge, puniva la violenza sessuale come reato contro la morale pubblica, prevedeva l’omicidio d’onore, il matrimonio riparatore e altre simpatiche cosette. Qualcuno ricorda il famigerato Titolo X, Dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe, del Libro II del codice penale?
Sino al 1969 il nostro codice penale prevedeva un diverso trattamento per marito e moglie in caso di adulterio. Il marito era punito solo se teneva “risaputamente” una concubina in casa o in altro luogo; la moglie era punita in caso di semplice adulterio e la pena era più severa nel caso di relazione adulterina; basta riflettere sulla ratio della norma per comprendere di quale cultura siamo figli. Proviamo a decifrare. Se una donna ha tante relazioni extra-coniugali il marito può sempre dire che era una ninfomane o semplicemente una “cagna in calore” come si usa dire… Ma se ha una stabile relazione extra-coniugale, allora la moglie attenta all’ordine fondato sul maschio padrone, mette in discussione la propria appartenenza al suo maschio padrone. C’è voluta la Corte Costituzionale per abolire questi articoli (il 559 e il 560).
Sino al 1981 in Italia esisteva il “delitto d’onore” (art. 587 c.p.). Un uomo che uccideva la moglie adultera era considerato quasi un “giusto” e punito in modo simbolico. Lo stesso criterio si applicava nel caso uccidesse la figlia o la sorella scoperta in “illegittima relazione carnale” dando per acquisito che questa relazione fosse una offesa all’onore del marito\padre\fratello! Ovviamente, il maschio padrone poteva uccidere anche l’uomo che aveva recato cotanta offesa al suo onore.
Vogliamo in questo breve viaggio nell’horror legislativo dimenticarci del “matrimonio riparatore”? Consentiva di cancellare il reato di violenza sessuale. Anche questo istituto fu abolito solo nel 1981! Emblematico, e destò molto scalpore, il caso della giovane Franca Viola (a questo caso è ispirato il film “La Sposa più bella” di Damiano Damiani con Ornella Muti). Dimenticavo, se lo stupro era di gruppo, il matrimonio di uno degli autori con la stuprata estingueva il reato per tutti. Ecco cosa prevedeva l’art. 544 del C.p. (abolito solo nel 1981): “Per i delitti di violenza carnale il matrimonio tra l’autore del reato e la persona offesa estingue il reato stesso. Anche per gli eventuali complici in caso di condanna il matrimonio ne cessa l’esecuzione e gli effetti penali.”
Sino al 1996 in Italia lo stupro era un reato contro la moralità pubblica e non contro la persona. La donna subiva la violenza ma “andava risarcita” la società offesa nella pubblica moralità.
Queste norme puntellavano un sistema culturale e di potere, un modello comportamentale, un modo di intendere e regolare le relazioni interpersonali e soprattutto i rapporti di coppia. C’è poco da stupirsi se persistono comportamenti che appaiono retaggio di una epoca lontana ma in realtà sono le scorie di una storia recente non ancora finita perché pari a zero è lo sforzo educativo e formativo per creare nuove generazioni con una diversa consapevolezza dei diritti e del rispetto della dignità della persona.
Anche la recente discussione parlamentare che ha prodotto l’introduzione dei reati persecutori (art. 612-bis c.p.), il cosiddetto stalking, poteva essere una ottima occasione per rivedere tutte le norme che delineano i reati tipici delle relazioni interpersonali. Ovviamente, occasione persa. E altra occasione persa si sta verificando nella corrente legislatura.
Il reato di stalking è collocato immediatamente dopo il reato di minacce (art. 612); siamo nella Sezione III (Dei delitti contro la libertà morale) del Capo III (Dei delitti contro la libertà individuale) del Titolo XII (Dei delitti contro la persona) sempre del Libro II del codice Penale.
La pretesa dei nostri legislatori di voler prevedere ogni cosa porta a così tante sfumature che talvolta diventa difficile provare l’effettiva esistenza di un reato, soprattutto quando si tratta di reati di condotta (e non di evento).
L’autore del reato di stalking è nella maggioranza dei casi un familiare della vittima. Se la vittima di determinati reati è un familiare, ciò dovrebbe essere una aggravante del reato stesso ma a essere tutelata deve essere la persona, prescindendo in prima istanza dal definire il rapporto esistente tra autore e vittima del reato.
Così succede che più che al legislatore e agli educatori dobbiamo ai giudici e in particolar modo alla Cassazione se la norma scritta riesce a essere più rispondente alle esigenze di tutela dei diritti della persona.
Ecco allora che una persona non più convivente è in ogni caso considerabile (per sentenze di cassazione) persona di famiglia e quindi punibile per il reato previsto dall’art. 572 c.p. (Cass. Sez. VI n. 26571/08; Cass. Sezione VI sentenza n. 16658/09); persino tra fidanzati non conviventi può sussistere il reato di maltrattamenti (Cass. Sezione V sentenza 24668/10).
E il reato di maltrattamenti sussiste anche in presenza di atti di per sé privi di rilevanza penale ma che, nel contesto generale della condotta e della volontà dell’autore del reato, determinano la mortificazione e la lesione dei diritti personalissimi del familiare. Per esempio, una persona avara è stata condannata per maltrattamenti (Cassazione Sezione Sesta Penale Sentenza n. 6785/2000): “la pervicace, sistematica condotta del ricorrente, tesa a rendere la vita insopportabile al coniuge con l’umiliante (ed ingiustificata) vessazione di esasperata avarizia che, come bene è sottolineato in sentenza, non rappresenta altro che il callido “alibi”, dietro cui imporre il proprio autoritarismo gratuito, inconciliabile con il benché minimo rispetto dell’affectio maritalis.”
Cosa dovremo attendere perché il legislatore comprenda che oltre a norme repressive va varato un ampio programma educativo e formativo per contrastare ogni forma di violenza e discriminazione di genere?
Il femminicidio prosegue.